Cap. VII, 6. Servitudo ex caritate: ubbidire per essere libero

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La consacrazione a Maria, sotto varie forme, è considerata parte essenziale del carisma, oltre che dei monfortani, anche dei marianisti, dei claretiani e di vari altri istituti religiosi (58). Essa è in uso inoltre in molte associazioni, come la “Legione di Maria”, la “Milizia dell’Immacolata”, l’ “Apostolato Mondiale di Fatima”, l’associazione “Maria Regina dei Cuori” e nelle stesse Congregazioni mariane. “Con l’elezione al Pontificato di Giovanni Paolo II e i suoi rinnovati atti di consacrazione delle singole Chiese e nazioni, della Chiesa universale e del mondo intero (1981, 1982, 1984) – osserva il padre monfortano Stefano De Fiores – la consacrazione/affidamento a Maria diventa tema teologico senza frontiere” (59).
Per quanto inserita da sempre nella tradizione della Chiesa, la consacrazione a Maria ha subito però incomprensioni di vario genere. Nella opposizione a questa consacrazione confluiscono due generi di critiche: la prima è relativa al suo stesso oggetto, la santissima Vergine, a cui si presterebbe un indebito culto di “latria” (60); la seconda critica riguarda il modo della consacrazione, intesa, secondo la prospettiva monfortana, come “schiavitù” alla Madonna.
Il primo punto è confutato con chiarezza dallo stesso san Luigi Maria di Montfort: se tutte le devozioni devono tendere a Cristo come al fine e al centro di tutto, “altrimenti esse sarebbero ingannatrici” (61), è evidente, egli spiega, che anche la consacrazione a Maria non può avere altro fine che Cristo. “Dunque – dice il Montfort – se noi stabiliamo la solida devozione alla Santissima Vergine, è solo per stabilire più perfettamente quella a Gesù Cristo” (62). Non si tratta quindi di culto di “latria”, ma di legittimo culto di “iperdulia”. “La teologia – infatti – ci dice che dobbiamo avere per Maria non soltanto un culto di dulia, come quello che è dovuto ai santi, ma un culto d’iperdulia, che viene immediatamente dopo il culto di latria, riservato a Dio e alla divina Umanità del Salvatore” (63).
E’ soprattutto il secondo punto, relativo all’idea di “schiavitù” (64), che urta però la sensibilità moderna, perché esprime un rapporto di dipendenza e di sudditanza antitetico a quell’idea di “liberazione” e autodeterminazione che costituisce il leit-motiv della mentalità progressista (65). L’uomo moderno non può immaginare che vi sia qualcuno che desidera trovare la propria libertà nella dipendenza da un altro. “Nessuno vuole essere più schiavo, nemmeno schiavo d’amore” (66), obietta un noto teologo progressista.
Eppure i santi e i Papi, che dal secolo IX ai nostri giorni presero negli atti ufficiali il titolo di Servus servorum Dei (67), furono onorati di consacrarsi come schiavi a Gesù Cristo, alla Santissima Vergine e al proprio prossimo (68). “Il Signore mi ha fatto schiavo del popolo d’Ippona”, scriveva sant’Agostino (69), mentre san Giovanni Crisostomo affermava: “Se colui che era nella forma di Dio si è egli stesso annientato, prendendo la forma dello schiavo per salvare gli schiavi, che cosa c’è da stupire se io, che sono soltanto uno schiavo, mi faccio lo schiavo dei miei compagni di schiavitù?” (70).
Plinio Corrêa de Oliveira, in una serie di articoli per il grande pubblico apparsi sulla “Folha de S. Paulo” impostò con la consueta chiarezza il problema, riconducendo i termini di “schiavitù” e di “libertà” al loro autentico significato (71): “Dell’uomo che adempiva ai suoi obblighi si diceva un tempo che era ‘schiavo del dovere’. Di fatto, era un uomo posto al vertice della sua libertà, che comprendeva con un atto tutto personale le vie che doveva percorrere, decideva con forza virile di percorrerle, e vinceva l’assalto delle passioni disordinate, che tentavano di accecarlo, di rammollirne la volontà e di sbarrargli il cammino liberamente scelto. L’uomo che, ottenuta questa suprema vittoria, proseguiva con passo fermo nella direzione dovuta, era libero.
‘Schiavo’ era, al contrario, chi si lasciava trascinare dalle passioni sregolate, in una direzione che la sua ragione non approvava, né la sua volontà aveva scelto. Questi autentici vinti venivano chiamati ‘schiavi del vizio’. Si erano, per schiavitù al vizio, ‘liberati’ dal sano imperio della ragione. (…) Oggi si è rovesciato tutto. Come tipo dell’uomo ‘libero’ si considera l’hippie con il fiore in pugno, che girovaga senza fissa dimora e senza meta, oppure l’hippie che, con una bomba in mano, semina il terrore a suo piacimento. Al contrario, si considera come legato, come uomo non libero, chi vive nella ubbidienza alle leggi di Dio e degli uomini.
Nella prospettiva attuale, è ‘libero’ l’uomo che la legge autorizza a comperare le droghe che vuole, a usarle come gli pare, e infine … a diventarne schiavo. Ed è tirannica, schiavizzante, la legge che vieta all’uomo di diventare schiavo della droga.
Sempre in questa strabica prospettiva, fatta di inversione di valori, è schiavizzante il voto religioso mediante il quale, in piena coscienza e libertà, il frate si dedica, rinunciando a qualsiasi ritirata, al servizio, pieno di abnegazione, dei più alti ideali cristiani. Per proteggere questa libera decisione dalla tirannia della propria debolezza, il frate si assoggetta, con questo atto, alla autorità di superiori vigilanti. Chi si lega così, per conservarsi libero dalle sue cattive passioni, è oggi soggetto a essere qualificato come vile schiavo. Come se il superiore gli imponesse un giogo che limitasse la sua volontà … quando, al contrario, il superiore serve da guida per le anime elevate che aspirano, liberamente e coraggiosamente – senza cedere alla pericolosa vertigine delle altezze – a salire fino in cima alle scale dei supremi ideali.
Insomma, per gli uni è ‘libero’ chi, con la ragione obnubilata e la volontà spezzata, spinto dalla follia dei sensi, ha la possibilità di scivolare voluttuosamente sulla slitta dei cattivi costumi. Ed è ‘schiavo’ chi si piega alla propria ragione, vince con forza di volontà le proprie passioni, ubbidisce alle leggi divine e umane, e mette in pratica l’ordine.
Soprattutto è ‘schiavo’, in questa prospettiva, chi, per garantire più completamente la propria libertà, sceglie liberamente di sottomettersi ad autorità che lo guidino verso la meta alla quale vuole giungere. A questo punto ci porta l’attuale atmosfera, impregnata di freudismo!” (72).
In che senso si può coniugare la parola ‘amore’ a quella schiavitù, che sembra contraddire la prima in quanto odiosa imposizione di una volontà all’altra?
“In buona filosofia, – spiega ancora Plinio Corrêa de Oliviera – ‘amore’ è l’atto con il quale la volontà vuole liberamente qualcosa. Così, anche nel linguaggio corrente, ‘volere’ e ‘amare’ sono parole utilizzabili nello stesso senso. ‘Schiavitù di amore’ è il nobile vertice dell’atto con cui qualcuno si dà liberamente a un ideale, a una causa. Oppure, talora, si lega a un altro.
L’affetto sacro e i doveri del matrimonio hanno qualcosa che vincola, che lega, che nobilita. In spagnolo, le manette si chiamano esposas, “spose”. La metafora ci fa sorridere, e può fare rabbrividire i divorzisti. Allude, infatti, alla indissolubilità. In portoghese, e in italiano, si parla di ‘vincolo’ matrimoniale. Più vincolante dello stato matrimoniale è quello sacerdotale. E, in un certo senso, lo è ancora di più quello religioso. Quanto più alto è lo stato liberamente scelto, tanto più forte è il vincolo, e tanto più autentica la libertà” (73).
Plinio Corrêa de Oliveira ricorda come la consacrazione di san Luigi Maria Grignion di Montfort è di una mirabile radicalità. Essa sacrifica non solo i beni materiali dell’uomo, ma anche il merito delle sue buone opere e preghiere, la sua vita, il suo corpo e la sua anima. Essa non ha limiti, perché lo schiavo, per definizione, non ha niente di suo, appartiene in tutto al padrone. La Madonna ottiene in cambio per il suo “schiavo di amore”, speciali grazie divine che illuminano la sua intelligenza e irrobustiscono la sua volontà.
“In cambio di questa consacrazione, la Madonna agisce nell’interiorità del suo schiavo in modo meraviglioso, istituendo con lui un’unione ineffabile.
I frutti di questa unione si vedranno negli Apostoli dei Tempi Ultimi, il cui profilo morale è tracciato dal santo con linee di fuoco nella sua famosa Preghiera infuocata. A questo fine usa un linguaggio di grandezza apocalittica, nel quale sembrano rivivere tutto il fuoco di un Battista, tutta la forza dell’annuncio di un Evangelista, tutto lo zelo di un Paolo di Tarso.
Gli uomini straordinari che lotteranno contro il demonio, per il regno di Maria, conducendo gloriosamente fino alla fine dei tempi la lotta contro il demonio, il mondo e la carne, sono descritti da san Luigi come magnifici modelli che invitano alla perfetta schiavitù alla Madonna quanti, nei tenebrosi giorni attuali, lottano nelle file della Contro-Rivoluzione” (74).

 

Note:

[58] Sul rapporto tra la consacrazione a Maria di san Luigi Maria Grignion di Montfort e quella di san Massimiliano Kolbe, cfr. padre Antonio M. Di Monda o.f.m. conv., La consacrazione a Maria, Milizia dell’Immacolata, Napoli 1968.

[59] Stefano De Fiores s.m.m., Maria nella teologia contemporanea, Centro “Madre della Chiesa”, Roma 1987, p. 314-315. Cfr. anche A. Rivera, Boletín bibliográfico de la consagración a la Virgen, in “Ephemerides Mariologicae”, vol. 34 (1984), pp. 125-133.

[60] “Una consacrazione propriamente detta – obietta ad esempio il teologo progressista Juan Alfaro – non si fa se non a una Persona divina perché la consacrazione è un atto di latria, il cui termine finale può essere unicamente Dio” (J. Alfaro, Il cristocentrismo della consacrazione a Maria nella congregazione mariana, Stella Matutina, Roma 1962, p. 21).

[61] S. L. M. Grignion di Montfort, Il Trattato della vera devozione, cit., n. 61.

[62] Ivi, n. 62.

[63] R. Garrigou-Lagrange o.p., Vita spirituale, cit., p. 254.

[64] La dottrina della Chiesa sulla schiavitù è espressa nella frase di San Paolo: “Non vi è più differenza fra il Giudeo e il greco, lo schiavo e il libero, l’uomo e la donna; voi siete uno in Gesù Cristo” (Ad Galatas, III, 28). “La casa di ogni uomo è una città – aggiunge san Giovanni Crisostomo – e, in essa, vi è una gerarchia: il marito ha il potere sulla moglie, la moglie sugli schiavi, gli schiavi sulle loro spose, gli uomini e le donne sui propri figli” (in Epistula ad Ephesios, cit. in Paul Allard, Gli schiavi cristiani nei primi tre secoli della Chiesa, tr. it. Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1913, p. 284).

[65] Sulla schiavitù e la morale cristiana: Pietro Palazzini, Voce Schiavitù, in EC, vol. XI (1953), col. 58; Viktor Cathrein, s.j., Filosofia morale, tr. it. Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1920, vol. II, pp. 475-490.

[66] Edward H. Schillebeeckx, Maria Madre della Redenzione, tr. it. Edizioni Paoline, Catania 1965, p. 142.

[67] A. Pietro Frutaz, Servus Servorum Dei, in EC, vol. XI (1953), coll. 420-422. San Gregorio Magno fu il primo Papa a fare largo uso di questo titolo (cfr. Paolo Diacono, Vita S. Gregorii, in PL, vol. 75, p. 87).

[68] S. L. M. Grignion di Montfort, Il Trattato della vera devozione, cit., n. 135, ma anche Imitazione di Cristo, libro III, cap. X.

[69] P. Allard, Gli schiavi cristiani, cit., p. 245.

[70] S. Giovanni Crisostomo, De mutatione hominum, Homilia II, 1, 1 cit. in P. Allard, Gli schiavi cristiani, cit., p. 246. Secondo il padre Garrigou-Lagrange, “se vi sono nel mondo schiavi del rispetto umano, dell’ambizione, del denaro e di altre passioni anche più vergognose, per fortuna esistono anche schiavi della parola data, della coscienza e del dovere. La santa schiavitù appartiene a quest’ultima classe. Abbiamo qui una vivente metafora che si contrappone alla schiavitù del peccato” (R. Garrigou-Lagrange o.p., La Mère du Sauveur et notre vie intérieure, Edition du Cerf, Paris 1975, appendice IV).

[71] L’insegnamento di Plinio Corrêa de Oliveira riflette quello di Leone XIII, nell’enciclica Libertas del 20 giugno 1888 (in IP, vol. VI, La pace interna delle nazioni, cit., pp. 143-176) e anticipa quello di Giovanni Paolo II, nell’enciclica Veritatis Splendor del 6 agosto 1993.

[72] P. Corrêa de Oliveira, Obedecer para ser livre, in “Folha de S. Paulo”, 20 settembre 1980, tr. it. “Cristianità”, n. 85 (maggio 1984), p. 15.

[73] P. Corrêa de Oliveira, ivi, pp. 15-16. “Chiamando tutti gli uomini alle vette di libertà della ‘schiavitù di amore’, san Luigi Maria lo fa in termini così prudenti da lasciare libero il campo per importanti sfumature. La sua ‘schiavitù di amore’, così piena di particolare significato per le persone legate con voto alla stato religioso, può essere ugualmente praticata da sacerdoti secolari e da laici. Infatti, contrariamente ai voti religiosi, che obbligano per un certo tempo oppure per tutta al vita, lo ‘schiavitù di amore’ può lasciare in qualsiasi momento questa elevatissima condizione, senza ipso facto commettere peccato. E, mentre il religioso che disubbidisce alla sua regola incorre in peccato, il laico ‘schiavo di amore’ non commette nessun peccato per il semplice fatto di contraddire in qualcosa la generosità totale del dono che ha fatto. Ciò posto, il laico si mantiene in questa condizione di schiavo con un atto libero, implicitamente o esplicitamente ripetuto ogni giorno. O meglio in ogni istante” (ivi).

[74] P. Corrêa de Oliveira, La devozione mariana e l’apostolato contro-rivoluzionario, cit.

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