Santo del giorno 2 novembre 1966
di Plinio Corrêa de Oliveira

Il gisant di Luigi XII e di sua moglie Anna di Bretagna, nella chiesa di Saint Dénis (Parigi). Dipinto di Emil Pierre Joseph de Cauwer (1867)
Il Giorno dei Morti significa molto, moltissimo per noi. Perché è proprio il giorno in cui preghiamo per tutti i fedeli e per tutte le anime che sono morte e che forse si trovano in Purgatorio. Ma è anche il giorno in cui la Chiesa – con quel tatto che le è proprio e che è qualcosa di assolutamente inconfondibile – ci ricorda la realtà della morte.
È come se aprisse un precipizio sotto i nostri piedi e ci facesse vedere da un lato una moltitudine di anime che si trovano in uno stato di pena, di sofferenza. E dall’altro lato la miseria della morte, la distruzione della morte, l’annientamento della morte, la miseria dell’anima quando non va direttamente in Paradiso.
Sarebbe bello vedere nella liturgia di quel giorno – non so se abbia subito qualche riforma – le frasi di Giobbe, i lamenti che ricordano l’uomo portato ai confini della follia e che poi entra nelle fauci della morte, completamente isolato, con le ossa calcificate, la carne ridotta in polvere, un immenso pianto che inonda la sua anima separata dal corpo, e quella miseria di quella creatura peccatrice posta in un’atmosfera di punizione, in attesa della misericordia di Dio e della misericordia dei vivi. Questo fa molto bene.
Di tanto in tanto dovremmo meditare sulla morte, per comprendere quanto sia profondamente reale quell’avvertimento che il sacerdote fa il Mercoledì delle Ceneri: «Ricordati, uomo, che sei polvere e in polvere tornerai». Non siamo altro che polvere e torneremo ad essere polvere.
E questo ci fa dare una dimensione esatta a tutte le cose di questa vita. Tutti noi qui, in questa sala, in questo momento, possiamo essere mossi da desideri così diversi. Ma cosa sono questi desideri, quando calcoliamo ciò che siamo? È una cosa tremenda!
“Quando passo davanti al cimitero, vedo lì il mio destino”.
L’altro giorno stavo leggendo un articolo su un voluminoso periodico riguardante la morte improvvisa, e il dottor “X” mi ha detto che le cose stanno proprio come raccontava quell’articolo giornalistico. Ho sempre pensato che prima di morire bisognasse ammalarsi, almeno di morte naturale, non intendo con un incidente qualsiasi, per esempio un camion che ci investe. E che, quindi, finché ci sentiamo bene, avremmo una relativa sicurezza di non morire. Ma non è vero. Si può stare perfettamente bene, e all’improvviso si forma nel tallone o nella punta del dito, per esempio, un coagulo determinato da ragioni che non si conoscono, e ecco che si verifica un’embolia… che si dirige al cervello e determina un effetto “X”, il cui risultato più palpabile è la morte. E questo può accadere a chiunque di noi, in qualsiasi momento.
Nel momento in cui vi sto parlando, è possibile che ci sia un coagulo a un centesimo di secondo dal mio cervello e che io non riesca a finire questa frase e cada morto.
Voi direste, a torto, che stavo prevedendo la mia morte quando ho parlato, ma non è vero. Sto solo prevedendo la possibilità della mia morte. E può darsi, tuttavia, che non finisca la frase.
Se sono qualcosa di così inconsistente, se un coagulo che si stacca dal mio tallone cancella tutti i miei desideri, tutte le mie aspirazioni, tutti i miei movimenti in relazione alle cose di questa vita, se sono una cosa così, così debole che, in ultima analisi, so che morirò. Quando passo davanti al cimitero, vedo lì il mio destino che è già scritto: diventare polvere, essere divorato dai vermi! È una cosa orribile il modo in cui avviene la corrosione dei vermi. Il dottor “Y”, una volta, mi ha dato alcune informazioni su come avveniva, descritte nelle lezioni di medicina legale che aveva seguito: è una cosa tremenda. Perché prima il corpo inizia molto spesso ad assumere uno stato di sebo, burro o gelatina e poi marcisce…
Guardatevi allo specchio, pensate ai vostri lineamenti definiti e pensate a quando tutto ciò avrà un aspetto ripugnante e gelatinoso, trasformandosi in formaggio puzzolente; quando il naso, quando questo, quando tutto sarà orribile…
La meditazione sulla morte è benefica per creare distacco, umiliare l’orgoglio e far capire che possiamo cadere da un momento all’altro nel giudizio di Dio
E arriva l’immagine dei vermi che divorano quelle ossa… Proprio come, per esempio, durante la Rivoluzione Francese i terroristi divorarono i girondini, che in fin dei conti erano meno indecenti di loro.
I girondini divorarono la vecchia monarchia francese, già in stato di decomposizione, di grasso e di liquidazione. Così è l’inesorabile marcia delle cose…
Questo (decomposto e divorato dalla morte) sarò io! È questa carne qui, queste ossa il cui impatto sto sentendo che saranno ridotte a scheletro; rimarrò disteso in una tomba e non sarò più nulla. Molte persone passeranno vicino e diranno: “Che sollievo!” Qualcuno passerà vicino e dirà: “Poverino!” Qualcuno si ricorderà di pregare per me. Chiedo che preghino bene… E questo è il risultato della mia vita. A un certo punto sarò ridotto a ossa che causano orrore a tutti.
Mi chiedo: non è forse questa meditazione utile per raffreddare molti ardori, per creare molti distacchi, per umiliare molto orgoglio e per far comprendere che possiamo cadere da un momento all’altro nel giudizio di Dio vivente? Ma da un momento all’altro! Perché chi di noi sa se tornerà a casa oggi? Chi di noi sa se tra un’ora non sarà giudicato da Dio? E che non sarà bruciato dalle fiamme del Purgatorio?
Ora, senza queste incertezze la vita non ha alcuna grandezza. Nulla è bello, nulla nella vita è attraente, se non con un sudario sullo sfondo. Perché è solo attraverso il contrasto che l’uomo conosce le cose di questa vita. Ed è solo attraverso il contrasto con questa miseria fondamentale che comprendiamo quanto poco sia tutto ciò che desideriamo qui, e la grandezza di un altro destino che ci attende.
La “civiltà” moderna ha paura del lutto
Ed è anche per questo che i liturgisti vogliono eliminare tutto ciò che nella liturgia rappresenta la morte. Ho già visto uno di loro sostenere l’uso di paramenti bianchi per questa occasione dicendo: “È un giorno di gioia! Il defunto va in Paradiso. Tutta la famiglia dovrebbe essere soddisfatta!…”
Non ho voluto dirglielo, ma avrei voluto dirgli: “Signor ingenuo, conosco bene il suo carnevale. Quello che vuoi è non guardare il drappo nero, perché hai paura che il drappo nero ti segua e ti avvolga come un sudario. Hai paura di pensare alla notte oscura verso cui tutti noi andiamo. Ma tu, in realtà, hai paura perché la tua coscienza è inquieta. Qui sta la verità ed è per questo che non vuoi il nero».
Allora, come la civiltà moderna ha paura del lutto…
Ho conosciuto il tempo in cui alcune vedove ritardatarie – non so come fosse il lutto in Cile o in Uruguay – indossavano un lutto che era tutto nero, dalla testa ai piedi, un velo nero dietro, un altro velo nero davanti, naturalmente trasparente, diafano, affinché la vedova potesse vedere dove camminava. E quando andavano a fare visita per ringraziare delle condoglianze, indossavano tutto questo e sollevavano il velo per conversare. Poi lo abbassavano. Poi andavano a fare un’altra visita…
C’era anche quello che veniva chiamato “lutto alleggerito”, cioè il lutto diminuito in funzione del grado di parentela con la persona defunta e del tempo trascorso dalla sua morte: se marito, padre, madre, ecc. Era quindi bianco e nero. E, infine, dopo un anno o due, il lutto veniva completamente soppresso.
La Rivoluzione ha paura della morte. Dobbiamo affrontarla con serenità, con grandezza, anche nella sua afflizione e nella sua terribilità
Quante persone dicono: “Ah, questa è pura formalità, non mi piace!” Non è vero. Hai paura della morte e hai un tale panico che hai paura persino del colore nero. E hai paura di seppellirti in quei lutti. In fondo, hai paura di morire. Ed è per questo che non vuoi il lutto.
È il terrore della morte che ha la Rivoluzione. Ed è chiaro. Ha tutte le ragioni per avere paura della morte…
Dobbiamo affrontare la morte con serenità, con grandezza, anche in ciò che ha di afflittivo, di tremendo.
C’è una grande miseria nella morte, dove potremmo dire quanto segue: l’essere intelligente, capace di morire, capace di superare una catastrofe così grande, ha una tale capacità di grandezza che sicuramente un’altra vita e un altro destino lo attendono. E in questo allora comprendere bene tutta la nostra grandezza.
Aggiungo: per la mia cara generazione nuova – non parlo più della mia generazione che è già andata – non è solo la considerazione della morte a fare bene: anche la visione del dolore è benefica. A volte ho voglia di fare il turista, portando alcuni di voi in un ospedale oncologico, in un ospedale gratuito, in ospedali dove ci sono, come qui nella “Santa Casa di Misericordia”, persone che soffrono di ulcere esposte sulla mano, sul viso, su un arto, affinché comprendiamo qual è il ruolo del dolore nella vita, qual è il ruolo della sofferenza nella vita. E capire che non si può vivere una vita da bambola di porcellana, ignorando queste cose e non avendo il coraggio di affrontarle.
“Neanche Luigi XIV in tutto il suo splendore aveva la maestà di Giobbe nel suo letamaio”.
Ho avuto anch’io il desiderio, ma lo trovo avventuroso, di commentare un giorno alcuni brani del libro di Giobbe, che contiene alcune delle descrizioni più fastose del dolore. Non ho mai visto tanta maestà nel dolore e non ho mai visto tanta maestà al di fuori del dolore come nel libro di Giobbe.
Se è vero che Nostro Signore disse che Salomone, in tutto il suo splendore, non si vestiva come un giglio dei campi – sentenza ammirevole e del tutto vera! – credo che si possa dire che Luigi XIV in tutto il suo splendore non aveva la maestà di Giobbe nel suo letame!

I lamenti di Giobbe sono tra le cose più maestose che siano mai esistite sulla terra. E lì si comprende la maestà della tragedia, la maestà della tragedia grossa, che arriva agli ultimi limiti, la grandezza che l’uomo ha conservando la serenità di modo sapienziale di fronte a questa tragedia.
So che i lamenti di Giobbe sono di un genere letterario molto singolare e poco apprezzato. Ma sono stati ispirati dallo Spirito Santo. È un autore eccellente, ve lo garantisco…
Pregare per le anime del Purgatorio che nessuno include nelle proprie preghiere
Tutto questo a proposito del Giorno dei Morti. È la lezione che ci danno i morti e che ci dà la morte. È una lezione di profondità, una lezione di forza d’animo, una lezione di coraggio, una lezione di grandezza, che è incomparabile.
Un tempo c’erano articoli sulla morte anche nei giornali scandalistici, in cui il cronista, quando descriveva qualcuno che era morto, per dire che era deceduto, diceva: “Alla fine, espirò e la maestà della morte rivestì i suoi lineamenti”. Era un’idea molto bella.
C’è una maestà della morte e, soprattutto, di certi morti che assumono una maestà che è l’immagine stessa della maestà di Dio punitivo, di Dio mentre punisce, è la maestà del tuono, la maestà del lampo, la maestà del terremoto, è la maestà dei cataclismi; è qualcosa che bisogna conoscere e amare. Perché chi non conosce questo, non lo ama e non è in grado di vedere Dio nella sua interezza: nella sua infinita affabilità, nella sua infinita dolcezza e nella grandezza della sua giustizia anch’essa infinita.
Tutte queste sono meditazioni utili da fare riguardo al Giorno dei Morti.
Preghiamo per i defunti con una proposta che faccio loro, che è questa: che le preghiere di questa notte – purché la Madonna, che detiene tutto il valore delle nostre preghiere in questo, lo consenta – siano per le anime del purgatorio che sono più abbandonate e per le quali nessuno prega; anime che forse hanno ancora mille anni da scontare nel fuoco, ecc., e nessuno prega per loro. Ma a una condizione: che esse ci ottengano la comprensione, l’amore e l’entusiasmo per tutte le ombre con cui la morte arricchisce l’estetica dell’Universo e i veri panorami della vita umana.
Nota: Traduzione senza revisione dell’autore.