AMBIENTI, COSTUMI, CIVILTÀ
“Catolicismo”, Nº 32, pag. 7 – agosto 1953
di Plinio Corrêa de Oliveira

Partiamo da una verità ben nota. Poiché Dio è l’autore della natura, tutte le leggi che regolano l’universo sono un’immagine della sua sapienza e della sua bontà. Tra queste leggi ci sono quelle della fisica, e tra quelle della fisica ci sono quelle della meccanica. Pertanto, chi si dedica allo studio della meccanica e all’ottenimento di nuovi benefici per l’uomo attraverso macchinari sempre migliori solo può essere lodato.
Passiamo a un’altra verità ben nota. Non basta apprezzare ciò che è buono. Le cose buone sono disposte in una gerarchia, una in relazione all’altra e tutte in relazione a Dio. Ne consegue che, pur apprezzando tutto ciò che Dio ha fatto, dobbiamo attribuire a ogni cosa l’esatto valore che Dio ha voluto darle. È ragionevole, ad esempio, apprezzare le piante. Ma sarebbe assurdo preferire le piante all’uomo. È giusto coltivare le arti. Ma sarebbe gravemente errato sostenere che esse debbano avere la stessa considerazione della teologia. E così via.
Ora, le leggi della meccanica si riferiscono al mondo inanimato, cioè agli esseri più bassi nell’ordine della creazione, che non hanno alcun grado di vita. Non ci sarebbe quindi disordine più grande o più grave di quello di chi erigesse la meccanica a oggetto più alto e più nobile dell’intelligenza umana e pretendesse che il mondo intero, tutta la società umana, con la miriade di società e gruppi più piccoli che deve contenere, debba essere e muoversi “più meccanicamente”.
Una persona può essere immensamente appassionata di meccanica, ma questo non significa che sia esente dal riconoscere la naturale superiorità di altre conoscenze rispetto a quella a cui si è dedicata. Un veterinario che cercasse di organizzare il mondo come un’enorme scuderia commetterebbe meno errori di un meccanico che lo vedesse come un enorme macchinario.
È proprio questo l’errore in cui è caduta la maggior parte dei nostri contemporanei. Tutto ciò che è legato alle macchine li affascina, li diverte e li entusiasma. Ingranaggi, rivetti, molle, assi, cuscinetti, cinghie, pulegge: sono queste le cose che l’uomo di oggi si diletta a conoscere, analizzare e migliorare. Letteratura, arte, filosofia, storia e teologia lo lasciano relativamente inerte. Ma quando si trova in presenza di una macchina – il motore di un’auto o di una moto, per esempio – non c’è una vite o un filetto che non riesca a contemplare completamente.
Qual è l’origine di questo stato d’animo? Sarebbe troppo lungo rispondere a questa domanda. Ricordiamo solo, di sfuggita, che la meccanica ha come unico ed esclusivo campo la materia: l’uomo della strada del nostro secolo, profondamente materialista, deve naturalmente avere una particolare inclinazione per la meccanica.
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Ciò comporta ovviamente gravi inconvenienti. L’idolatria della macchina ha portato a una vera e propria meccanizzazione della vita. Il Santo Padre Pio XII ha messo due volte in guardia i fedeli da questo nuovo errore, lo spirito meccanico. Lo ha fatto una volta nel discorso all’Azione Cattolica del 3 maggio 1951, in cui ha espresso la necessità che l’Azione Cattolica non sia concepita alla maniera di un immenso meccanismo alimentato dall’elettricità da un punto di comando centrale, poiché deve essere un’articolazione viva di esseri viventi, e non un incastro di parti inerti, anche se sapientemente collegate tra loro. E nel radiomessaggio dello scorso Natale – uno dei discorsi più brillanti e profondi dell’attuale Pontefice, paragonabile senza dubbio alle più belle encicliche di Leone XIII – ha mostrato che il ritmo di lavoro e di progresso dell’umanità non è impersonale, cieco, inesorabile come quello di una macchina, ma vivo, saggio, immensamente variabile come il governo paterno di Dio. La tendenza a organizzare meccanicamente cose così vaste come la società umana, o così importanti come l’A.C., mostra gli estremi a cui può portare l’idolatria della macchina.
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