San Carlo Borromeo, uomo politico (conferenza del Beato Cardinale Schuster)

Cardinale Alfredo Ildefonso Schuster, “Al dilettissimo popolo”, Ed. San Paolo, 1996, pag. 203-216

Conferenza. Marzo 1938

(RDM 28 (1938) pp. 286-298)

 

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Già il titolo rappresenta una provocazione in un’epoca in cui si ostentavano quali slogan virtuosi frasi dei tipo «qui non si fa politica». Ha un bel dire Schuster nelle prime righe della sua conferenza che è vero il contrario: da una lettura più attenta appare che Carlo Borromeo fu figura politica proprio per il fatto di essere «nobilmente ed esclusivamente il Vescovo».

Schuster narra per sommi capi le vicende biografiche del predecessore: la famiglia d’origine, gli studi a Pavia, gli incarichi a Roma presso lo zio papa Pio IV. Ma la vera azione pastorale del Borromeo comincia con la presa di possesso della diocesi milanese. Descritti i suoi meriti, vengono enumerati alcuni episodi significativi della sua vita. Nel primo vediamo san Carlo rimanere a Milano ad affrontare la peste mentre le autorità civili si ricoverano in località più sicure. Poi eccolo vendere le sue ricchezze per provvedere al mantenimento dei poveri privandosi egli stesso di ogni comodità. Da ultimo la sua ostinata opposizione alle autorità spagnole che vorrebbero estendere al ducato di Milano il potere dell’inquisizione per fini tutt’altro che nobili e spirituali.

E’ questa probabilmente la chiave di lettura dello stesso episcopato di Schuster, eminentemente pastorale e dichiaratamente apolitico, eppure proprio perché attento ai suoi irrinunciabili doveri nei confronti della Chiesa e del popolo di Dio, non riconducibile ad una semplice subalternità e non disposto a tacere qualora se ne fosse presentata la necessità, cosa che si sarebbe puntualmente verificata di lì a poco.

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Cominciamo con una pregiudiziale. Non ostante quello che abbiano detto gli storici panegiristi del secolo XVII, san Carlo non fu propriamente una figura politica ma fece nobilmente ed esclusivamente il Vescovo. Fuori della zona spirituale della riforma Tridentina la sua influenza sui governi e sui governanti fu piuttosto indiretta, quale irradiava soprattutto dal suo esempio e dalla vasta autorità che gli conciliavano lo splendore della sede, la nobiltà del casato e, finalmente, la santità della sua vita.

La circostanza particolare che egli fu Arcivescovo di Milano sotto il governo degli Spagnoli potrebbe, a prima vista, sollecitare la nostra curiosità: quale atteggiamento prese il Borromeo di fronte al governo straniero in Lombardia?

Quel governo tutto di rigonfiature, di pizzi e di pieghe, che però aveva negato il placet all’Arcivescovo Archinti suo ultimo predecessore; e quando il placet finalmente venne, nel 1508, l’Archinti da più anni era morto. Ma anche questa domanda rappresenta un anacronismo. Le idee quarantottesche dovevano sorgere solo due secoli più tardi. Ai tempi di san Carlo, sebbene tutti qui non soffrissero il governo degli Spagnoli e ridessero loro alle spalle, pure a nessuno della gran massa popolare allora venne mai in mente una qualche possibile riscossa, sia pure per mezzo delle barricate o delle 5 giornate.

Il titolo quindi di questa conferenza: La figura politica di san Carlo, più che affermare, propone semplicemente un quesito, che, a mio modesto giudizio, vuole essere risolto negativamente. San Carlo non fu una vera personalità politica; ma la sua grandezza deriva principalmente dalla sua immensa opera pastorale, in grazia della quale egli governa ancor oggi l’immensa Archidiocesi di Milano.

Manco a farlo apposta, il fondatore della potenza di Casa Borromeo – intendo dire del Card. Gian Angelo Medici divenuto in seguito Pontefice Romano col nome di Pio IV – entra la prima volta nella storia Milanese siccome complice della congiura ordita da Girolamo Morone per liberare la Lombardia dalla dominazione Spagnola.

Il complotto fu scoperto ed il Morone andò ad espiarlo in carcere, mentre al Medici convenne prendere la via dell’esilio. ln seguito, l’accordo o la pace di Madrid rappresentò una specie di armistizio; il quale non impedì che, mentre il maggiorasco dei Medici, fattosi capitano di ventura, colle sue scorrerie sul lago Maggiore dava molto filo da torcere agli Spagnoli in Lombardia, suo fratello Gian Angelo conducesse un’attivissima opera diplomatica contro gli Spagnoli a Roma. Vinse per allora la Corona di Spagna come la più forte; ma chi realmente aveva guadagnato nella lotta erano i Medici che, da semplici avventurieri sul lago Maggiore, avevano tanto estesa la loro potenza, da poter tener fronte alla stessa Spagna, che concesse loro il desiderato riconoscimento e li ammise ai propri servizi.

Quando nella notte del 2 ottobre 1538 san Carlo nacque nel Castello di Arona, i suoi zii erano ancora in carcere, prigionieri di Carlo V, e fu buona ventura che Gian Angelo, che trovandosi a Nizza a fianco di Paolo III che l’aveva preso a proteggere, perorò si efficacemente presso Carlo V, che ottenne la loro liberazione.

L’infanzia di san Carlo trascorse serena nel Castello natio, alla pari di quella di qualsiasi altro rampollo di generosa progenie. Pietà profonda e fierezza guerriera distinguevano i Borromeo; nessun dubbio che queste due virtù, aspirate quasi coll’aria nativa ad Arona, contribuirono moltissimo a formare in Carlo il carattere autoritario, abituato al comando, ed insieme il santo che ha quasi istintivo ed innato il senso della pietà evangelica.

Giusta l’uso del tempo, la famiglia Borromeo doveva annoverare tra i suoi rampolli anche qualche abbatino, a cui intestare quei pochi beni di Chiesa sui quali essi vantavano degli antichi diritti. Tra gli altri, c’era allora la Badia Aronese dei Ss. Gratiniano e Felino, di cui era appunto abbate commendatario uno zio paterno di Carlo, Giulio Cesare.

Ma perché alla di lui eventuale morte la S. Sede non potesse disporre liberamente di quel beneficio in favore di qualche estraneo, ma rimanesse in famiglia, il vecchio commendatario rinunziò alla Badia in favore del piccolo Carlo, il quale non contava allora che 12 anni. Non c’era male, a quell’età, portare in casa un’annua rendita di ben tredicimila lire! Un bel guadagno per i Borromeo! Dicono però gli storici che san Carlo, sin dalla sua prima età prevenendo gli anni col senno e colla virtù, avvertì suo padre di non considerare quei denari di Chiesa siccome roba familiare, ma che li adoperasse invece a scopo di religione e di pietà.

Nel novembre 1552, a 14 anni, Carlo venne iscritto alla Facoltà di Diritto Civile e Canonico a Pavia. L’ambiente vigoroso di allora maturava assai meglio d’oggi il carattere dei giovanetti; così che il Borromeo sin da allora ci desta l’impressione d’uno studente modello, che sente assai la dignità propria e della propria famiglia, e che è già capace di governare sé stesso e la propria minuscola corte che l’accompagnava.

Fierezza molta, ma danari pochi, contraddistinsero quei verdi anni di Carlo studente a Pavia.

«Spero di agire in modo di non dare motivo mai a V. Ecc. – scrive al Marchese di Marignano – di rinnegarmi come uomo dappoco».

Ed altra volta al padre: «E’ un’onta, per una persona della mia condizione, di portare un gabbano sotto una pelliccia!».

Il padre però lo tiene a corto di danari; certamente perché non ne ha. Carlo quindi è rimasto a Pavia con quattro letti e tre coperte sdrucite. «Tre coperte in quattro, e siamo nel cuore dell’inverno!».

Ma le disgrazie vengono come le ciliegie, dice il proverbio, a coppie. Il 1º agosto 1558, Gilberto, il padre di san Carlo, muore ed è sepolto nelle Grazie a Milano, mentre il governatore Spagnolo si affretta a prender ormai possesso della Rocca di Arona, siccome feudo vacante, e ricaduta liberamente in dominio della Corona.

Le trattative dei due orfani figli, Federico e Carlo, per entrare in possesso dell’eredità paterna, furono assai lunghe e non sempre felici. Tutte circostanze che non potevano rendere Carlo troppo amico del governo Spagnolo.

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Ma dopo un’adolescenza angustiata da tante difficoltà finanziarie e politiche, un lieto evento viene finalmente a cambiare le condizioni dei Borromei ed a mutare le disposizioni della Corona di Spagna a loro riguardo.

La sera di Natale del 1559, dopo un laborioso Conclave protrattosi per ben quattro mesi, venne eletto Papa Gian Angelo Medici, che prese il nome di Pio IV. Egli, in quel primo momento, volle circondarsi di parenti, e tra gli altri chiamò subito a Roma i due figli di Gilberto Borromeo, per scaricare sulle loro spalle una parte delle fatiche e delle responsabilità del governo della Chiesa.

Del nepotismo dei Papi si è detto tutto il male possibile facendo appena una eccezione per riguardo a san Carlo. Si è però dimenticato di osservare, che in quei tempi torbidi di congiure, di veleni e di pugnalate alla schiena, ogni novello Pontefice che, magari affatto impreparato veniva balzato al governo degli Stati della Chiesa, se pur voleva trovare delle persone fidate a cui commettere le cariche più importanti, doveva pur cercare questi fidi tra i membri della propria famiglia.

Ecco quindi Carlo Borromeo che al principio dell’anno 1560 lascia Milano e con squisito senso di Fede va a porsi a servizio del Romano Pontefice.

«Parto per Roma – scrive al Conte Gianni Dal Verme a Bobbio – allo scopo di baciare i piedi a S. Santità e di mettermi a suo servizio».

E ben gliene incolse, giacché da allora in poi fu una continua pioggia di onori e di danari. Non era ancora trascorso il primo mese, ed era già Protonotario Apostolico ed Amministratore Generale dello Stato della Chiesa. Il 31 gennaio venne creato Cardinale, l’8 febbraio nominato Amministratore perpetuo dell’Arcivescovado di Milano, indi Protettore del Portogallo, dei Cantoni Svizzeri Cattolici, dell’Austria Inferiore, ecc., Legato di Bologna, di Ravenna, Governatore di Spoleto, Abbate di Nonantola, di Mozzo, di Follina ecc. con un’annua rendita di almeno 48.000 scudi!

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L’opera che ha fatto più onore a Pio IV fu l’aver condotto a buon termine il Concilio di Trento, e l’aver iniziato dal Vaticano e da Roma la tanto invocata riforma della Chiesa nel Capo e nelle membra. I panegiristi di san Carlo hanno facilmente attribuito la maggior parte di questi meriti al Cardinal Nepote, il quale, al loro dire, sarebbe stato il genio benefico che ispirava infallibilmente il Papa zio.

Per altri che tenesse conto dei caratteri così di Pio IV che del giovane Carlo, non sarebbe, al contrario, difficile il negare addirittura al giovane Segretario di Stato una tale influenza preponderante sulla politica Pontificia. Forse la verità sta nel mezzo.

Prima del supremo Pontificato, Gian Angelo Medici non aveva mai spasimato troppo per i Borromei, ai quali preferiva invece i nepoti del ramo degli Hohenems. Divenuto Papa, invece, si infastidì presto di questi ultimi, affatto grossolani ed interessati, preferendo i due figli di Gilberto Borromeo. Ma non ci illudiamo troppo. Ecco ciò che giustamente Girolamo Sorranzo, Ambasciatore della Repubblica Veneta, scriveva al suo Senato nel 1563, due anni dopo la promozione di san Carlo:

«Il Papa non vuole servirsi di altri che del Card. Borromeo e del segretario Tolomeo (Gallio), i quali essendo giovani di poca o di niuna esperienza, ed ossequenti ad ogni cenno di Sua Santità, si possono chiamare più presto semplici esecutori che consiglieri».

Infatti, la molteplice corrispondenza del Borromeo coi Legati Pontifici al Concilio di Trento, ce lo mostrano null’altro che l’organo fedele di Pio IV; d’altronde al giovane Segretario di Stato sarebbe allora mancata l’esperienza e la competenza per risolvere le numerose questioni che giornalmente si sollevavano in quelle universali assise dell’Episcopato Cattolico.

Né, d’altronde, Pio IV avrebbe tollerato che altri gli rubasse, come suol dirsi, la mano del governo della Chiesa. Tutti sapevano che egli, tutto che affabile, era talmente consapevole del proprio valore come abile canonista e come consumato nel governo Ecclesiastico, che non tollerava che lo si contradicesse.

Invece dove realmente san Carlo esercitò una benefica e reale influenza sullo Zio e sulla Corte di Roma, fu nell’eseguire i decreti di riforma promulgati a Trento.

Non ostante il buon volere di Pio IV, egli come apertamente non faceva professione di essere teologo, così neppur si curava troppo di nascondere la sua precedente educazione Ecclesiastica ai tempi allegri di Leone X e di Clemente VII. Nondimeno Pio IV, colla sua mente e colla coscienza retta, comprese i nuovi tempi e si lasciò influenzare dalla virtù del Nepote, perché, appena conchiuso il Concilio Tridentino, si die’ subito premura di eseguirne i decreti di riforma. A tale scopo, nominò delle Commissioni Cardinalizie per erigere il Seminario Romano, per invigilare sul celibato Ecclesiastico, per obbligare i Vescovi a risiedere effettivamente nelle loro Diocesi. Si cominciò a scopare dal Vaticano, dove il Papa mise fuori in una sola volta un 400 parassiti, che oziavano alle spalle del povero Pietro Pescatore!

Il 10 dicembre 1565 Pio IV spirò tra le braccia di S. Carlo e questo finalmente fu libero di consacrarsi interamente ai bi sogni spirituali della Diocesi di Milano, a cui fino allora aveva provveduto per mezzo di ottimi Vicari e di Procuratori.

L’opera pastorale di S. Carlo è tutta circoscritta e compresa nell’adempimento di quel piano di riforma sancito nel Concilio di Trento.

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Mentre i protestanti avrebbero voluto riformare la Chiesa per imposizione di Principi e di laici, così che essi medesimi si erano intitolati: Riforma, Dio invece aveva disposto che la Chiesa per iniziativa intrinseca e veramente vitale riformasse se medesima, santificando Clero e Pontefici, perché questi poi santificassero alla loro volta i laici.

Non descriverò qui, come cosa a tutti nota, l’opera di san Carlo, per dare un piano organico alla riforma Tridentina; i suoi numerosi Sinodi del Clero Milanese; i suoi sei Concili Provinciali coi Vescovi allora dipendenti dal Metropolita Milanese; le sue infaticabili Visite Pastorali, nelle quali giunse a visitare le più disperse borgate nel folto dei boschi e sulle rocce delle Alpi; le sue numerose istituzioni, specialmente qui a Milano, per la formazione del giovane Clero Ambrosiano, per l’educazione degli Ecclesiastici delle Diocesi Svizzere, per gli orfani, per le traviate ridotte a penitenza, per mantenere agli studi di Pavia i figli di famiglie più distinte, ma scarse di mezzi finanziari.

Durante la peste degli anni 1576-77 l’opera di S. Carlo fu così universale, che il popolo contraddistinse senz’altro quell’epidemia col titolo, assai significativo, di Peste di S. Carlo.

Le autorità Spagnole di Milano, al primo apparire del contagio, avevano disertato il posto, per riparare a Vigevano: così che in Città la direzione dei soccorsi e dell’assistenza agli appestati ricadde necessariamente sull’Arcivescovo. ln breve Milano e gran parte della Diocesi divennero, dove un Lazzaretto, dove un Camposanto. San Carlo allora, dopo di aver organizzato a sue spese i soccorsi, disprezzando qualsiasi pericolo, si consacrò personalmente all’assistenza degli appestati, girando ogni giorno tra quelle luride capanne e tra quei monti di cadaveri, per amministrare, a chi la S. Cresima, a chi il S. Viatico, a chi il conforto d’una benedizione.

Si narra che una volta trovo in una capanna di appestati una povera inferma che fiottava per i dolori di parto. Confortatola, san Carlo uscì fuori, perché l’altra, tutta sola, desse alla luce la prole; quando finalmente la madre ebbe tra le braccia il suo frutto, san Carlo entrò dentro ed avvolto quell’innocente nel suo rocchetto episcopale, si affrettò a trovare una balia che lo allattasse a sue spese. Ma la peste rendeva scarse anche le balie, che potessero allattare i numerosi orfani, i cui genitori erano periti a cagione del contagio; ed allora il Santo Arcivescovo fece acquisto di capre, perché col latte provvedessero alla nutrizione di quei pargoletti.

Una gran turba di poveri, rimasti senza mezzi e senza casa, accorsero da ogni parte a Milano ad aumentare la poveraglia della Capitale; che fece allora san Carlo per impedire lo sfruttamento della beneficenza e togliere insieme dalle vie di Milano i pericoli e gli inconvenienti dell’accattonaggio? Fece raccogliere tutti quegli indigenti girovaghi e lì trasportò in un suo edificio ad una cinquantina di miglia dalla Città, dove li mantenne a sue spese.

Per tante opere compiute, non parcamente lesinando, ma con gesto munifico del mecenate il quale fonda istituzioni benefiche, costruisce sedi, le dota, ciba e veste quotidianamente più migliaia di poveri, sarebbe occorso, non dico tutto il patrimonio dei Borromei, ma l’Erario stesso della Milano di Filippo II.

Eppure, san Carlo, affiancato solo da pochi Signori, provvide a mantenere tutto questo popolo durante la peste e la fame, negando magari a sé stesso un tozzo di pane ed un letto, vendendo i candelieri d’argento della sua Cappella, e spogliando il suo appartamento dei drappi e delle portiere, per ricavarne delle vesti e delle coperte per i poveri.

Ben comprendendo poi che le sciagure che avevano incolto la Lombardia rappresentavano il castigo del Cielo a cagione delle immoralità diffuse dalla rinascita paganeggiante, il Santo Arcivescovo si costituì vittima volonterosa dei peccati del suo popolo. I quadri e le stampe del tempo lo riproducono ancora così come gli artisti l’avevano contemplato in processione per le vie della città; pallido, magro e scalzo, colla corda al collo, frattanto che porta in processione una gran Croce con entro la Reliquia del S. Chiodo.

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Eppure, chi lo crederebbe? Mentre la leale correttezza così di Pio IV come del Cardinale Nepote verso il governo Spagnolo, facevano comunemente ritenere che la famiglia Borromeo fosse tra i principali fautori della Corona di Spagna, i diversi governatori Spagnoli di Milano che si successero durante il Pontificato di san Carlo, non cessarono mai di muovergli contro la più accanita guerra, non sempre diplomatica.

È strano, ma è così.

Non ostante tutto quello che la Spagna aveva fatto soffrire ai Borromeo, durante il Pontificato di Paolo IV, il Cardinale Angelo Medici aveva dovuto vivere lungi da Roma, perché innanzi alla Corte passava per troppo amico degli invisi Spagnoli.

Anche dopo la morte di Pio IV san Carlo mantenne coi Sovrani di Spagna i più cordiali rapporti; lettere di complimenti, Te Deum e funerali solenni per tutti gli eventi lieti e luttuosi della Casa Regnante, erano nello stile del tempo, ed il Card. Borromeo soleva fare le cose con raro sforzo e con grandissima pietà.

Ma i rappresentanti del governo Spagnolo in Milano non sapevano perdonare a S. Carlo l’immenso prestigio che la sua santità gli aveva conciliato fra il popolo milanese, così che il vero Sovrano spirituale allora era riguardato comunemente il Santo Arcivescovo.

Faceva troppo comodo al governo Spagnolo di divertire coi tornei, colle maschere e colle rigonfiature delle etichette, la vacuità di un regime che in Lombardia non aveva altro scopo che di stillare danaro Italiano per i bisogni di sua Maestà Cattolica. A chi avesse trovato qualche cosa da ridire su questo sgoverno, c’era tanto di grida con la minaccia dei soliti tratti di corda ed altre pene ad arbitrio di Sua Eccellenza o magari era pronta ad intervenire anche la S. Inquisizione, confondendo in un unico calderone la Religione e la ragion di Stato.

San Carlo che, non ostante l’opposizione del governatore, aveva armato anch’egli sei o sette sbirri da servirsene nelle cause concernenti il foro Ecclesiastico – e sembrava agli Spagnoli che quella mezza dozzina di uomini assoldati dall’Arcivescovo compromettessero la sicurezza del vastissimo Regno sul quale non tramontava mai il sole – san Carlo, dico, non tollerò il giuoco degli Spagnoli per tenere soggetti i Lombardi, e quando anche la corte Pontificia aveva finito per cedere alle pressioni di Madrid per l’Istituzione dell’Inquisizione Spagnola a Milano, spiattella «apertis verbis» al Papa l’intrigo così come realmente stava la cosa. «E acciocché N. Signore sappia una volta la radice ed il fondamento… bisogna che abbia questo per massima verissima, che in questo popolo è universale suspicione che si cerchi di mettere in questo Stato l’Inquisizione alla foggia di Spagna, non tanto per zelo religioso, quanto per interessi di Stato et per voracità di qualche ministro o consigliere, che per questa via disegnasse di arricchirsi con le facoltà di questi gentiluomini e cittadini».

Le losche mene vennero sventate, ma il Cardinale la scontò. Quante e quante volte i governatori di Milano, per fargli dispetto, organizzarono sul sacrato del Duomo giostre e tornei nella Iª Domenica di Quaresima, posero sotto sequestro la stamperia fondata dal Santo, inviarono a Roma ricorsi su ricorsi, dipingendolo siccome universalmente inviso alla cittadinanza, e brigando perché, richiamato in Roma, vi fosse trattenuto, con qualche altro incarico, senza permettergli di ritornare più alla sua Città Episcopale.

San Carlo tutto sopporto con eroica pazienza, senza mancare però di eludere talvolta le mene degli avversari con stratagemmi gustosissimi. È celebre, tra gli altri, quello che adoperò nel 1580 quando a lui, che era andato a Roma a difendersi, si presentò a rendere omaggio un’ambasceria di Milanesi, che avevano invece occulta missione dal governatore Spagnolo di brigare tanto a Roma, perché San Carlo non fosse più rimandato a Milano.

Il Borromeo fiutò il vento infido, e siccome non era neppure escluso che la Spagna mettesse il Papa colle spalle al muro, come dicesi, per sbarazzarsi del Card. Borromeo, questi d’accordo con Gregorio XIII, finse di non comprendere il gioco; anzi, tutto sorrisi ed inchini, presentò egli medesimo al Papa in udienza i messi del governatore di Milano. Anzi, aggiunse l’arcivescovo, per lasciare loro più ampia libertà di trattare con la Curia Papale, tutti gli affari che volessero, egli si ritirava immediatamente da Roma. Restassero loro. Salutatili quindi cortesemente, lasciò Roma e si ricondusse a Mi lano, dove giunse quasi all’improvviso.

Il governatore d’Ayamont dové fare buon viso a cattivo giuoco, e si recò subito a complimentare l’Arcivescovo, non mancando però d’impartire anche gli ultimi ordini, perché all’indomani, ed a suo dispetto, si celebrasse chiassosamente sul sacrato del Duomo il torneo e la giostra la Iª Domenica di Quaresima. Dichiarava di far così per non lasciar cadere in prescrizione il buon diritto dei Milanesi!

È interessante di udire dallo stesso S. Carlo in che modo il medesimo governatore d’Ayamont lo trattò in occasione della prima visita di complimento che gli fece il Santo al suo primo giungere in Milano. Non ostante il carattere sempre grave di Carlo, la lettera è tutta pervasa da una fine punta di ironia che diremmo quasi Manzoniana, ma che invece è autenticamente Borromea.

«Mi sembrò conveniente di andare a presentare i miei complimenti al nuovo governatore… Mi ricevette nella sua anticamera, dove siamo rimasti a discorrere dinanzi a tutte le persone presenti. Io non so se questo modo di agire è fierezza, se il cerimoniale Spagnolo regoli così le cose per la prima visita».

Ma la Spagna, sapendo che a Milano il Santo Arcivescovo era tetragono a tutte le persecuzioni e che il popolo era con lui, la Spagna agiva diplomaticamente a Roma per rimuovere il Borromeo da Milano.

Scrive S. Carlo: «Gregorio XIII non è il primo Papa al quale si domandi una cosa simile; essi avevano già stancato Pio V con parecchie sollecitazioni. Ma questi non volle mai acconsentire… precisamente perché essi lo desideravano». Così S. Carlo al senatore Cesare Mezzabarba.

Altra volta scriveva al suo agente in Roma, Speciano. «Le mie risoluzioni non le prendo dopo gli ordini che vengono dalla Spagna».

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Tale stato di cose non si modificò gran che, dopo l’occulto invio di un messo di san Carlo, il Bascape, a Filippo II medesimo. Complimenti molti, buone e vaghe promesse, ma in fine della lettera il Re non esitava a fare al Borromeo una predica in forma, per indurlo ad essere più prudente e moderato. «Agendo diversamente – aggiungeva il Monarca – avverranno delle complicazioni, che potranno turbare gli animi; per ottenere il bene degli uomini, importa di impiegare dei mezzi conforme alla loro natura, rimedi opportuni, e non prendere delle misure contrarie al fine che si è proposto».

La sera del 3 novembre 1584 san Carlo, estenuato dalle penitenze e dalle continue fatiche della vita pastorale, moriva a soli 46 anni, lasciando una larga eredità di affetti, incorniciati però entro una nera cornice di odi e di malvolere di tutta quella gente che il Santo Cardinale in vita aveva scomodato, perché facesse il proprio dovere.

Dovettero trascorrere quasi 20 anni perché il Vicario Generale di Milano, «superando mille difficoltà», potesse istituire la prima inchiesta Canonica per quindi procedere alla Canonizzazione di san Carlo. Gli uomini ancora stavano disputando in favore e contro, quando Dio intervenne per san Carlo con un gran numero di prodigi operati a sua intercessione.

La voce di Dio prevalse e S. Carlo fu Canonizzato da Paolo I il 1° novembre 1610.

La Corona di Spagna già si era riconciliata con lui con splendidi donativi alla sua tomba.

Termino con un mesto ricordo.

Due anni fa il giorno di san Carlo alla solenne Messa Pontificale in Duomo assisteva, insieme col Duca delle Asturie, Re Alfonso XIII, «quantum mutatus ab illo». Mentre un’aureola di luce soprannaturale irradiava sul capo di san Carlo, l’erede degli antichi Sovrani di Spagna appariva scoronato e ridotto a semplice condizione privata.

Dopo la santa Messa ossequiai riverente lo sventurato Monarca, così come avrebbe fatto san Carlo, sempre religiosamente devoto alle Autorità ed al Governo, ma in cuor mio mi ricordai di quella profezia del Magnificat: Deposuit potentes de sede, et exaltavit humiles (Depose i potenti dalle loro sedi ed esaltò gli umili).

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