Verba Tua manent in aeternum

 

 

 

I Papi ed i castighi divini

 

 

 

 

 

 

 

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Discorso del Santo Padre Benedetto XV ai sacri predicatori quaresimalisti di Roma (19 febbraio 1917):

(...) Dovrete anzitutto difendere i diritti di Dio sulle creature, non allontanandone il pensiero se non per insistere sui doveri delle creature stesse verso Iddio. Tutto ciò che accade nel mondo dev’essere spiegato alla luce della fede. Questo ammirabile lume, per non accennare che ad una parte dei suoi insegnamenti, ci fa comprendere che le private sventure sono meritati castighi, o almeno esercizio di virtù per gli individui, e che i pubblici flagelli sono espiazione delle colpe onde le pubbliche autorità e le nazioni si sono allontanate da Dio. I sacri oratori che, ad imitazione di San Paolo, vogliano rinnovata nel mondo la manifestazione dello spirito cristiano « in ostensione spiritus », devono dunque esortare i fedeli a ricevere dalle mani di Dio così le private sventure come i pubblici flagelli, senza punto mormorare contro la Divina Provvidenza, ma procurando di placare la Giustizia Divina per le colpe degli individui e delle nazioni.

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Pio XII, dalla Lettera Enciclica Datis Nuperrime, condanna dei luttuosi avvenimenti in Ungheria (5-11-1956):

(…) Per le città e i villaggi dell'Ungheria scorre di nuovo il sangue generoso dei cittadini che anelano dal profondo dell'animo alla giusta libertà, che le patrie istituzioni, non appena costituite, sono state rovesciate e distrutte, che i diritti umani sono stati violati e che al popolo sanguinante è stata imposta con armi straniere una nuova servitù. Orbene, come il sentimento del Nostro dovere Ci comanda, non possiamo fare a meno di protestare deplorando questi dolorosi fatti, che non solo provocano l'amara tristezza e l'indignazione del mondo cattolico, ma anche di tutti i popoli liberi. Coloro, sui quali ricade la responsabilità di questi luttuosi avvenimenti, dovrebbero finalmente considerare che la giusta libertà dei popoli non può essere soffocata nel sangue.

Noi, che con animo paterno guardiamo a tutti i popoli, dobbiamo asserire solennemente che ogni violenza, ogni ingiusto spargimento di sangue, da qualsiasi parte vengano, sono sempre illeciti; e dobbiamo ancora esortare tutti i popoli e le classi sociali a quella pace che deve avere i suoi fondamenti nella giustizia e nella libertà e che trova nella carità il suo alimento vitale. Le parole che Dio rivolse a Caino: «La voce del sangue di tuo fratello grida a me dalla terra» (Gn 4,10), hanno anche oggi il loro valore; e quindi il sangue del popolo ungherese grida al Signore, il quale, come giusto giudice, se punisce spesso i peccati dei privati soltanto dopo la morte, tuttavia colpisce talora i governanti e le nazioni stesse anche in questa vita, per le loro ingiustizie, come la storia ci insegna. (PIUS PP. XII, Litt. enc. Datis nuperrime quibus Luctuosissimi Hungariae eventus complorantur ac reprobantur, [Ad venerabiles Fratres Patriarchas, Primates, Archiepiscopos, Episcopos aliosque locorum Ordinarios pacem et communionem cum Apostolica Sede habentes], 5 novembris 1956: AAS 48(1956), pp. 748-749. - Si veda anche il radiomessaggio del 10 novembre 1956: EE 6/2022-2034).

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Discorso di Sua Santità Pio PP. XII ai Giuristi Cattolici circa l'aiuto ai carcerarti (Domenica, 26 Maggio 1957):

(…) 3. – SENSO E FINE DELLA PENA

3. – Finalmente voi dovete conoscere il senso e il fine della pena. È un argomento che Noi abbiamo trattato ampiamente in precedenti allocuzioni. Senza ripetere ciò che allora abbiamo detto, vorremmo invitarvi a riflettere sul fatto che « Dio punisce », come appare chiaramente dalla rivelazione, dalla storia e dalla vita. Qual è il senso di questo castigo divino? L'Apostolo Paolo lo lascia intendere, quando esclama: « Ciò che uno avrà seminato, quello mieterà » (Gal. 6, 8). L'uomo, che semina la colpa, raccoglie il castigo. Il castigo di Dio è la risposta di Lui ai peccati degli uomini.

Voi direte forse che ben conoscete ed accettate gl'insegnamenti della religione e della morale in questa materia, ma che siete costretti a vedere la pena in un'altra luce e dovete discuterla in un altro piano, vale a dire come un provvedimento preso dalla pubblica autorità a riguardo del colpevole, che ha infranto il diritto positivo, per mezzo del quale lo Stato intende di tutelare la ordinata vita sociale. Ed è giusto: l'aspetto giuridico e positivo conserva il suo carattere proprio e distinto da quello religioso e morale. Senza dubbio la pena può essere considerata come una funzione sia del diritto umano che del diritto divino, ma è egualmente, od anche più vero, che l'aspetto giuridico non è mai un concetto puramente astratto, pienamente tagliato da qualunque relazione con l'aspetto morale. Ogni diritto umano, infatti, meritevole di questo nome trova finalmente il suo vero fondamento nel diritto divino; il che non porta seco né diminuzione né limitazione, ma piuttosto un aumento della sua forza e della sua stabilità.

Quali sono dunque il senso ed il fine della pena data da Dio? In primo luogo ed essenzialmente, essa è la riparazione della colpa e la restituzione dell'ordine violato. Commettendo il peccato, l'uomo si sottrae ai precetti divini e oppone la sua volontà a quella di Dio. In questo confronto personale l'uomo preferisce sé stesso e respinge Dio. Nel castigo persiste il confronto fra le stesse due persone, Iddio e l'uomo, fra le stesse volontà; ma ora, imponendo alla volontà del ribelle la sofferenza, Iddio lo costringe a sottomettersi al suo volere, alla legge e al diritto del Creatore, e a restaurare così l'ordine infranto.

Il castigo divino però non esaurisce in tal guisa tutto il suo senso, almeno in questo mondo e per il tempo della vita terrena. Esso ha anche altri scopi, che sono anzi, in parte, preponderanti. Spesso infatti le pene volute da Dio sono piuttosto un rimedio che un mezzo di espiazione, piuttosto « poenae medicinales » che « poenae vindicativae ». Esse ammoniscono il reo a riflettere sulla sua colpa e sul disordine delle sue azioni, e lo inducono a distaccarsene ed a convertirsi.

In tal guisa, subendo la pena inflitta da Dio, l'uomo intimamente si purifica, rafforza le disposizioni della sua rinnovata volontà verso il bene ed il giusto. Nel campo sociale, l'accettazione della pena contribuisce alla rieducazione del colpevole, lo rende più atto ad inserirsi nuovamente come membro utile nella comunità degli uomini, contro la quale il suo delitto l'aveva messo in opposizione. Rimarrebbero ancora da considerare le eguali funzioni della pena nel diritto umano, per analogia a ciò che abbiamo esposto intorno al castigo divino. Ma tale passo voi potete compierlo facilmente, perché siete giuristi, e simili pensieri vi sono familiari. D'altra parte, abbiamo già bastantemente attirato la vostra attenzione sui rapporti che si stabiliscono necessariamente fra i due ordini (Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, XIX, Diciannovesimo anno di Pontificato, 2 marzo 1957-1° marzo 1958, pp. 225-236, Tipografia Poliglotta Vaticana).

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Radiomessaggio del Santo Padre Giovanni XXIII alla popolazione di Messina in occasione del 50° anniversario del terremoto del 28 Dicembre 1908 (Domenica, 28 Dicembre 1958):

(…) Voi avete un gran debito verso questa celeste Madre, Signora della vostra città.

É giusto pertanto che all'omaggio doveroso per le vittime oggi, o diletti figli, anche l'inno della riconoscenza. La gratitudine per il passato è pegno di fiducia per il futuro. « Dio esige da noi che lo ringraziamo dei benefici ricevuti » non perché abbia bisogno dei nostri ringraziamenti, ma « affinché inducano a concederne anche dei maggiori » [S. Ioan.Crisost. Hom. 52 in Gen. P. G. 54, 460]. Vi è da sperare dunque che la Madre di Dio, accettando il vostro ringraziamento, non lascerà incompleta la sua opera, ma proseguirà ad accordarvi il suo materno patrocinio.

Bisogna però che la speranza vostra non sia presunzione; bisogna cioè che voi, accogliendo il consiglio che Ella dava alle nozze di Cana, facciate tutto ciò che Gesù vi dice [Cfr. Io, 2, 5]. Ed Egli vi dice di fuggire il peccato, causa principale dei grandi castighi, di amare Dio al di sopra di tutte le cose, di riporre in Lui solo la vostra speranza e la vostra difesa contro le calamità, poichè « nisi Dominus aedificaverit domum, in vanum laboraverunt qui aedificant eam; nisi Dominus custodierit civitatem, frustra vigilat qui custodit eam » [Ps. 126, 1-2]. Vi dice inoltre che in quest'ora tremenda in cui lo spirito del male adopera ogni mezzo per distruggere il Regno di Dio, debbono essere impegnate tutte le energie per difenderlo, se volete evitare alla vostra città rovine immensamente più grandi di quelle materiali disseminate dal terremoto cinquant'anni or sono. Quanto più arduo sarebbe allora riedificare le anime, una volta che fossero staccate dalla Chiesa e rese schiave delle false ideologie del nostro tempo.

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Giovanni Paolo II, udienza generale, Castel Gandolfo (Mercoledì 13 Agosto 2003):

(…) 3. Tobi rivolge un appello caloroso ai peccatori perché si convertano e operino la giustizia: è questa la via da imboccare per ritrovare l’amore divino che dà serenità e speranza (cfr v. 8).

La stessa storia di Gerusalemme è una parabola che insegna a tutti la scelta da compiere. Dio ha castigato la città perché non poteva rimanere indifferente di fronte al male perpetrato dai suoi figli. Ma ora, vedendo che molti si sono convertiti e trasformati in figli giusti e fedeli, egli manifesterà ancora il suo amore misericordioso (cfr v. 10).

Lungo tutto il Cantico del capitolo 13 di Tobia si ripete spesso questa convinzione: il Signore «castiga e usa misericordia… castiga per le vostre ingiustizie ma usa misericordia a tutti… ti ha castigata per le opere dei tuoi figli, e avrà ancora pietà per i figli dei giusti» (vv. 2.5.10). Dio ricorre al castigo come mezzo per richiamare sulla retta via i peccatori sordi ad altri richiami. L’ultima parola del Dio giusto resta tuttavia quella dell’amore e del perdono; il suo desiderio profondo è quello di poter riabbracciare i figli ribelli che tornano a lui con cuore pentito.

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Benedetto XVI, udienza generale, Piazza San Pietro (Mercoledì, 18 Maggio 2011): [Video]

(...) E’ questo che il Signore vuole, e il suo dialogo con Abramo è una prolungata e inequivocabile manifestazione del suo amore misericordioso. La necessità di trovare uomini giusti all’interno della città diventa sempre meno esigente e alla fine ne basteranno dieci per salvare la totalità della popolazione. Per quale motivo Abramo si fermi a dieci, non è detto nel testo. Forse è un numero che indica un nucleo comunitario minimo (ancora oggi, dieci persone sono il quorum necessario per la preghiera pubblica ebraica). Comunque, si tratta di un numero esiguo, una piccola particella di bene da cui partire per salvare un grande male. Ma neppure dieci giusti si trovavano in Sodoma e Gomorra, e le città vennero distrutte. Una distruzione paradossalmente testimoniata come necessaria proprio dalla preghiera d’intercessione di Abramo. Perché proprio quella preghiera ha rivelato la volontà salvifica di Dio: il Signore era disposto a perdonare, desiderava farlo, ma le città erano chiuse in un male totalizzante e paralizzante, senza neppure pochi innocenti da cui partire per trasformare il male in bene. Perché è proprio questo il cammino della salvezza che anche Abramo chiedeva: essere salvati non vuol dire semplicemente sfuggire alla punizione, ma essere liberati dal male che ci abita. Non è il castigo che deve essere eliminato, ma il peccato, quel rifiuto di Dio e dell’amore che porta già in sé il castigo. Dirà il profeta Geremia al popolo ribelle: «La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Renditi conto e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore, tuo Dio» (Ger 2,19). È da questa tristezza e amarezza che il Signore vuole salvare l’uomo liberandolo dal peccato. Ma serve dunque una trasformazione dall’interno, un qualche appiglio di bene, un inizio da cui partire per tramutare il male in bene, l’odio in amore, la vendetta in perdono. Per questo i giusti devono essere dentro la città, e Abramo continuamente ripete: «forse là se ne troveranno …». «Là»: è dentro la realtà malata che deve esserci quel germe di bene che può risanare e ridare la vita. E’ una parola rivolta anche a noi: che nelle nostre città si trovi il germe di bene; che facciamo di tutto perché siano non solo dieci i giusti, per far realmente vivere e sopravvivere le nostre città e per salvarci da questa amarezza interiore che è l’assenza di Dio. E nella realtà malata di Sodoma e Gomorra quel germe di bene non si trovava.


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