Plinio Corrêa de Oliveira

 

Brasile:

per una politica agraria

né socialista né confiscatoria

 

 

 

 

 

 

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Il problema della riforma agraria nell'immenso paese latinoamericano in un'intervista in cui il professor Plinio Corrêa de Oliveira sfata la "leggenda nera" che fa da sfondo alla "teologia della liberazione" di impronta marxista. 

Cristianità, N. 138, ottobre 1986, pag. 5 e 6, a cura di Massimo Introvigne

Incontro il professor Plinio Correa de Oliveira a San Paolo, in Brasile, nella sede principale della TFP, la Sociedade Brasileira de Defesa da Tradição, Família e Propriedade, associazione civica di ispirazione cristiana da lui fondata nel 1960 e di cui è presidente a vita. Nato nel 1908, laureato in giurisprudenza all’università di San Paolo, fin da giovane eminente oratore, conferenziere e giornalista cattolico, fu tra i promotori della Lega Elettorale Cattolica e il deputato più votato del paese all’Assemblea Costituente federale del 1934. Professore di storia della civiltà nel collegio universitario dell’università di San Paolo, poi di storia moderna e contemporanea nelle facoltà São Bento e Sedes Sapientiae della Pontificia Università Cattolica della stessa città, è stato presidente della giunta arcidiocesana di Azione Cattolica e direttore del settimanale cattolico Legionario.

Attualmente collabora al mensile di cultura Catolicismo e, dal 1968, al quotidiano Folha de São Paulo, nonché a diversi altri organi di stampa brasiliani. Innumerevoli suoi articoli sono stati pubblicati anche all’estero. E autore di molte opere, fra cui principale Rivoluzione e Contro-Rivoluzione (3a. ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza, 1977). Poiché ha dedicato una parte cospicua della sua attività al problema della riforma agraria in Brasile, lo interrogo su questo argomento scottante e di attualità, che fa in un certo senso da sfondo alla «teologia della liberazione» marxisteggiante e anche a tanta missionologia spicciola europea e italiana, e che viene talora in primo piano come in occasione della visita del presidente brasiliano José Sarney al Santo Padre Giovanni Paolo II, il 10 luglio 1986.

*    *    *

D. Da quando si parla di «riforma agraria» in Brasile?

R. Dagli anni Sessanta, e precisamente dalla presidenza populista e laburista di João Goulart, il cui programma comprendeva la riforma urbana - in pratica, il blocco degli affitti - e la riforma agraria, appoggiata da un’attiva minoranza dell’episcopato guidata da mons. Helder Câmara. Nel 1961 la TFP ha pubblicato il volume Reforma agrária. Questão de consciência, che è stato in quell’anno il volume di saggistica più venduto in Brasile e che - mostrando il carattere socialista del progetto di riforma agraria – ha certamente contribuito alla caduta del presidente Goulart nel 1964. Dopo la caduta di João Goulart i governi militari hanno però proseguito sulla stessa strada: la legge di riforma agraria è stata subito promulgata nel 1964 dal presidente Castelo Branco, e applicata molto lentamente, direi con il contagocce, fino al 1985; ma, naturalmente, vent’anni di gocce possono allagare un intero quartiere. Dopo la caduta dei militari il progetto agroriformista è stato ripreso con maggior vigore dall’attuale presidente Sarney, che non ha promulgato una nuova legge, ma soltanto un regolamento per l’applicazione più rapida e radicale della legge del 1964. La legge di riforma agraria che si sta applicando è dunque una legge che risale agli anni del regime militare.

D. La conferenza episcopale del Brasile, la CNBB, appoggia ufficialmente l’attuale riforma agraria, vigorosamente contestata dalla TFP; qual’è esattamente la natura della vostra divergenza dalla CNBB in questa materia?

R. Sullo sfondo esiste anche un problema di carattere dottrinale, perché non mancano in Brasile ecclesiastici che sono contrari a qualunque disuguaglianza sociale, e considerano conforme alla giustizia solo una società assolutamente ugualitaria e quindi socialista, mentre la TFP, con tutta la dottrina sociale della Chiesa, sostiene che le disuguaglianze, purché armoniche e proporzionate, sono una ricchezza per la società, e che il socialismo non è affatto un ideale. Tuttavia il problema attuale non è principalmente di carattere dottrinale, ma tecnico. La posizione della CNBB muove da una certa esposizione della situazione economica e agricola del Brasile. Se la situazione fosse come i documenti della CNBB la descrivono, la dottrina sulla funzione sociale della proprietà privata giustificherebbe questa riforma agraria. Il punto è che i dati di fatto, la situazione di fatto, il problema tecnico non sono, a nostro avviso - e ad avviso dei migliori specialisti brasiliani -, descritti in modo corretto dagli esperti della CNBB. Non è un problema dottrinale: è un problema di dati e di analisi di carattere tecnico. La CNBB nei suoi documenti è scesa su un terreno che non è di dottrina, ma di fatto, e su questo terreno tecnico non ho dubbi che si abbia diritto a manifestare un rispettoso disaccordo con l’autorità ecclesiastica.

D. Sul terreno tecnico, quali sono le vostre principali critiche a questa riforma agraria?

R. Primo: muove da una «leggenda nera» che esagera in modo grossolano la situazione della povertà e della miseria in Brasile, e richiede interventi drastici senza considerare che, in gran parte, l’agricoltura brasiliana funziona in modo adeguato, con un aumento annuo della produzione superiore all’aumento della popolazione e un costante aumento del salario reale dei lavoratori dipendenti.

Secondo: non é adatta a un paese grande come il Brasile dove, per risolvere i problemi esistenti, basterebbe distribuire una parte delle terre del maggiore latifondista del paese, lo Stato, proprietario di oltre il cinquanta per cento dei terreni coltivabili, spesso male utilizzati.

Terzo: non mira in realtà a diffondere la proprietà privata, ma a ridurla e a spezzettarla a favore dell’avanzata dello statalismo, perché i terreni sottratti ai privati possono non essere assegnati in proprietà, ma solo in asentamento per cinque anni ai coltivatori: proprietario rimane lo Stato, che decide anche quali siano le coltivazioni opportune; il coltivatore ha diritto solo al guadagno sulle vendite dei prodotti.

Dopo cinque anni il governo potrà assegnare l’appezzamento in proprietà, ma solo a condizione che il coltivatore si impegni a non estendere la sua proprietà oltre questo piccolo terreno; non potrà mai ambire ad allargarsi, ad avere di più, e questo è contrario a tutta la storia del progresso dell’agricoltura brasiliana.

D. Alcune forze politiche sarebbero favorevoli a una riforma agraria che limiti gli espropri alle terre «improduttive», «inaproveitadas». Che cosa ne pensate?

R. Siamo contrari, perché «terre improduttive» nella legge di riforma agraria è un’espressione che ha assunto un significato tecnico, ed è a quello che bisogna riferirsi. Sono «improduttive» le terre non messe a profitto «con vantaggi sociali»: questa espressione ambigua permette di definire «improduttive» le terre dove non si coltivano i prodotti indicati dallo Stato, e mette il proprietario nell’alternativa fra perdere il diritto di piantare sulla sua terra quello che meglio crede e perdere la terra. Sono anche definite «improduttive» le terre che non sono ancora produttive, ma su cui il proprietario ha cominciato a investire per renderle adatte alla coltivazione non appena possibile. Infine, la nozione di terre «improduttive» colpisce il proprietario più povero che ha appena comprato una fazenda ma può permettersi di coltivarne solo una parte; con i fitti dei primi raccolti estenderà progressivamente l’area coltivata fino a coprire tutta la fazenda. Con la riforma agraria - anche nella versione «moderata» - chi ha fatto progetti di questo genere viene colpito, perché per ora la parte non coltivata della fazenda è «improduttiva» e, quindi, soggetta all’esproprio.

D. In Europa si dice talora che solo la riforma agraria può risolvere il problema drammatico della miseria nelle favelas, le città di baracche che sorgono alla periferia delle megalopoli brasiliane.

R. Non è così: in realtà, non vi è relazione fra il problema delle favelas e la riforma agraria. A prescindere dal fatto che anche la situazione delle favelas è spesso esagerata o mal conosciuta, chi vive nelle favelas è stato il più delle volte attirato dal mito della grande città e dal lavoro nell’industria, che preferisce a quello agricolo. La «favelizzazione» è il nome brasiliano dell’urbanizzazione, un fenomeno mondiale. E l’esperienza di tutto il mondo mostra che chi si è lasciato affascinare dalla grande città non torna in campagna: non sarà la prospettiva di coltivare per cinque anni una terra dello Stato, con una vaga speranza di diventarne un giorno proprietario, a convincerlo.

D. Quali sono le proposte positive della TFP per la questione agraria?

R. Noi non amiamo chiamare la nostra proposta «riforma agraria» perché ormai questa parola ha avuto in Brasile un’evoluzione semantica ed è percepita come sinonimo di riforma socialista e confiscatoria. La politica agraria che proponiamo si fonda sulla proposta di distribuire le terre dello Stato a chi dia garanzie di volerle coltivare. Come proposta subordinata per l’immediato - un male minore, che non sostituisce l’obiettivo di fondo - suggeriamo che lo Stato paghi i proprietari espropriati con una parte delle terre statali: i proprietari le metterebbero a profitto e l’agricoltura potrebbe progredire.

D. Si sente dire in Europa che distribuire le terre dello Stato brasiliano equivarrebbe a far morire gli indios, che su quelle terre vivono e si spostano.

R. E’ un argomento ridicolo, che rivela solo una deplorevole ignoranza. Il problema degli indios esiste e meriterebbe di essere approfondito, ma riguarda una parte molto piccola delle terre dello Stato brasiliano. Prendiamo una carta geografica e cancelliamo pure tutte le terre e le zone su cui esiste una presenza anche residuale o minima di indios: rimarranno sempre terre arabili dello Stato in misura sufficiente a coprire tutte le esigenze sbandierate dagli agroriformisti.

D. Per finire vorrei conoscere la vostra opinione sulle cosiddette «invasioni» di terre private, che sono spesso considerate fenomeni contigui alla riforma agraria e che sono sovente appoggiate, quando non organizzate, da «comunità di base» e da settori ecclesiali ispirati dalla versione più radicale della «teologia della liberazione» di impronta marxista.

R. Siamo contrari a questa riforma agraria. Siamo contrari alle invasioni. Siamo ancora più contrari alla confusione fra i due fenomeni. La riforma agraria è un atto del governo a cui ci opponiamo sul terreno politico richiedendo la modifica delle norme in vigore. Le invasioni – come continua a ritenere la magistratura brasiliana, qualunque cosa ne pensino certi ecclesiastici - sono un reato punito dai codici. Sono anche un fenomeno interessante perché mostrano, malgrado gli sforzi di chi le organizza, il carattere artificiale di molta agitazione nelle campagne: coloro che invadono terre di privati, vi si accampano e resistono anche con le armi ai tentativi dei proprietari di farli uscire dal loro terreno, vengono sempre da molto lontano, non si sa mai bene da dove. Sono stati identificati anche «invasori di professione». Ogni giorno leggo su questo problema decine di ritagli di giornale che mi arrivano da tutto il paese. Non ho ancora trovato un singolo caso in cui i presunti oppressi, i lavoratori salariati della fazenda, abbiano promosso loro l’invasione oppure si siano schierati a favore degli invasori. Al contrario, si legge spesso che si schierano a favore dei proprietari. E un fatto che chi proclama lo «sfruttamento» dei lavoratori agricoli salariati dovrebbe forse considerare più attentamente. Vorrei aggiungere una considerazione finale per i lettori italiani: trovo enorme che in Italia si segua con simpatia questa riforma agraria. Non si dovrebbe infatti ignorare che molte delle fazendas che vengono espropriate, divise, invase e distrutte appartengono a brasiliani di origine italiana e sono una testimonianza singolare del lavoro e della tecnica italiani. Usciti dalle stive dei piroscafi dell’emigrazione poveri come Giobbe, molti italiani hanno lavorato e risparmiato fino a potere acquistare, ingrandire e rendere straordinariamente produttive le fazendas più ricche del paese. Mi stupisce che questi figli e nipoti di italiani, che spesso mantengono relazioni epistolari con i familiari in Italia o anche li visitano, non siano riusciti a diffondere l’idea che la vita agricola brasiliana ha avuto e mantiene la possibilità di aprire largamente le porte del miglioramento socio-economico ai lavoratori rurali, non solo brasiliani di nascita, ma anche italiani, tedeschi, cinesi, giapponesi, che attraverso il loro lavoro si trasformano in proprietari e spesso anche in grandi proprietari. Mi stupisce anche che in Italia non ci si renda conto che spesso è il frutto dei sacrifici di generazioni di italiani quello che oggi si vorrebbe sacrificare a un pregiudizio ideologico statalista e socialista.


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