Plinio Corrêa de Oliveira

 

Spes Nostra Salve

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Catolicismo, N. 17, maggio 1952

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Miraculoso affresco della Madonna del Buon Consiglio di Genazzano (Italia)

Ottimismo, pessimismo, realismo: quale posizione dobbiamo prendere dinanzi ai fatti contemporanei?

Prima di rispondere a questa domanda, bisogna dare ai termini il loro vero significato.

A rigore, è realista chi vede i fatti tali e quali sono.

Ottimista sarebbe, invece, chi per difetto di visione, immaginasse i fatti con un aspetto più sorridente di quello presentato dalla realtà; pessimista sarebbe chi per un difetto simmetrico ed opposto, li vedesse con colori più cupi di quel che sono effettivamente.

Quindi, sarebbe realista un medico che avesse una nozione oggettiva e vera dello stato del suo paziente; ottimista, invece, sarebbe colui che, ingannando se stesso, valutasse il male come qualcosa di meno grave di quanto è in realtà; il pessimista, infine, riterrebbe il male più grave di quello che in effetti sia.

Tuttavia nel linguaggio corrente queste parole, a causa di uno slittamento semantico, sono usate in un senso alquanto diverso.

Se il medico, dopo aver esaminato l’ammalato, giungesse alla conclusione che – con tutta la veridicità dei fatti – il suo stato non è grave, si direbbe che «è ottimista» riguardo al futuro del suo paziente. «Ottimista» non vuol dire qui che il medico si sia illuso, e veda le cose migliori di ciò che sono.

Significa che le cose si presentano oggettivamente di buon auspicio, al punto che il medico spera reali miglioramenti. Al contrario, se la malattia fosse oggettivamente grave, si direbbe che dopo la visita il medico «ne è uscito pessimista».

Questa espressione non significa necessariamente che il medico si sia ingannato sullo stato dell’ammalato. Significherebbe che la situazione è molto grave, e di conseguenza c’è d’aspettarsi qualcosa di spiacevole.

Definiti questi diversi significati delle parole, sarà più facile e più preciso dire se si deve essere ottimisti, pessimisti o realisti.

Evidentemente, in qualsiasi caso, si deve essere realisti. Poiché il realismo è la visione esatta delle cose e, all’opposto, l’ottimismo e il pessimismo sono errori, si deve preferire la verità invece dell’errore. Perciò quando sentiamo parlare di «sano ottimismo», cronicamente e necessariamente opposto all’«insano pessimismo», spesso ci viene da sorridere: infatti se l’ottimismo è una visione sorridente, ma deformata, della verità, come può essere mai sano? Come può esserci salute nella deformazione?

Ma, qualcuno dirà, il sano ottimismo consiste nel vedere le cose sanamente, con i loro colori chiari, quando effettivamente sono chiare.

D’accordo. Ma in questo caso non si dovrebbe parlare sempre di «insano pessimismo».

Ci dovrebbe essere pure posto per un «pessimismo sano», che consisterebbe nel vedere le cose cupe quando effettivamente lo sono.

Al contrario, per le persone che parlano costantemente di «sano ottimismo» il pessimismo è necessariamente «insano» e uno che fosse sempre ottimista è «sano», così come per loro sarebbe «insano» uno che fosse sempre pessimista. La possibilità che ci sia un «pessimismo sano» è precisamente ciò che molta gente vuole a tutti i costi negare.

Riassumendo, si deve essere sempre ed inflessibilmente realisti.

Quando la realtà è buona, si deve dedurne auspici ottimistici nel buon senso della parola.

E quando la realtà è cattiva si deve dedurne pronostici pessimistici, ugualmente nel buon senso della parola. «Sano ottimismo», «insano pessimismo», sono soltanto espressioni legittime e ragionevoli, se identificate sempre, ed inesorabilmente, col «realismo assoluto».

Detto questo, la domanda se dobbiamo essere ottimisti o realisti per quanto riguarda l’epoca attuale, si trasforma in quest'altra: se la nostra epoca giustifica pronostici buoni, oppure cattivi.

È di questo, quindi, che tratteremo. Ciò che va male giustifica pronostici cattivi. E ciò che va bene giustifica pronostici buoni. Poiché l’effetto non può avere qualità che in qualche modo non siano contenute nella causa, di conseguenza, dobbiamo domandarci se le cose vanno bene o male ai nostri giorni.

Evidentemente la nostra epoca ha aspetti buoni e aspetti cattivi, come tutte le epoche storiche, persino le peggiori, o le migliori. Così, che un uomo si dia da fare per provvedere ai beni necessari o convenienti per il sostentamento della vita, è un bene.

Quindi, un ladro, nella misura in cui si preoccupa del suo futuro e desidera provvedere alla sua propria sussistenza, è nel giusto. Il suo peccato inizia soltanto nel momento in cui decide di impiegare mezzi illeciti per far fronte a questa preoccupazione, di suo giustissima.

Non tutto, pertanto, è cattivo nelle intenzioni del ladro. In questo senso, a rigore, lo stesso atto di Giuda, quando rubava le elemosine che gli Apostoli riservavano per i poveri e quando infine vendette l’Uomo-Dio, conteneva qualcosa di legittimo, in quanto rifletteva un’appetenza verso beni necessari al sostentamento della sua vita. Il che non ha impedito di dire che per Giuda «meglio sarebbe se non fosse nato», né di punire i ladri come criminali.

Così, dunque, dobbiamo riconoscere che non giudica oculatamente su un uomo, un paese, o un secolo, chi si limita appena a distinguere il bene e il male che vi possano esistere.

Bisogna risalire, da questa legittima distinzione di aspetti, all’unità fondamentale che esiste negli uomini.

E cercare di vedere, nella correlata unità di senso che questi aspetti devono rappresentare nel loro insieme, qual è la nota prevalente.

La questione, allora, si riduce a quest’altra: dei molteplici aspetti della nostra epoca, quale visione unitaria e d’insieme è posta in risalto?

Quali i valori, i princìpi, i fattori, i leitmotiv che prevalgono?

Non è questa la sede adatta per fare l’inventario di ciò che ci pare vada bene, o di ciò che ci pare vada male, e per poi stabilire ciò che prevale, se il bene o il male.

L’impresa sarebbe titanica, e difficilmente trasferibile in un libro.

A fortiori non potrebbe stare in un articolo di giornale.

Tuttavia, non per questo rimarremo senza risposta. Se vogliamo sapere ciò che prevale ai nostri giorni, se la carità di Nostro Signore Gesù Cristo o lo spirito del mondo, basta leggere S. Paolo.

 Secondo l’Apostolo, le opere della carne sono: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosie, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, omicidi, ubriachezza, orge ed altre cose del genere (Gal. V,19-21).

Al contrario, i frutti dello spirito sono: carità, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, modestia, continenza, castità (ibid 22-23).

Non è necessario domandarci se ciò che prevale nel nostro secolo siano le opere della carne o i frutti dello spirito. Prendiamo la stessa verità da un’altra angolazione. Oseremmo dire che la civiltà dei nostri giorni sia ancora prevalentemente cristiana?

In questo caso dovremmo riconoscere che la corruzione dei costumi, l’avidità, le rivalità, le lotte, il disordine universale che in essa prevalgono sono frutti propri e tipici dell’influenza della Chiesa. Chi non vede che questa affermazione è una bestemmia? Dunque, in questo modo, è necessario riconoscere la verità: la nostra civiltà non è formata dallo spirito di Gesù Cristo.

Essa produce i frutti tipici delle civiltà dominate dalle tenebre.

Che cosa ne può derivare? Con qualche altro decennio di guerre, di discordia e di lotta tra nazioni e classi dove finiremo? Se la corruzione dei costumi si accentuerà con la crescente velocità con cui si va sviluppando, dove ci troveremo tra 50 anni?

Ad esempio, in materia di balli, di scollature, di familiarità tra i sessi?

Se volessimo ragionare, con molta probabilità dovremmo riconoscere che ben poco ci separa dalla catastrofe totale e che, se si continua in questa direzione, tra non molto tempo subiremo un’eclissi di cultura e di civiltà analoga alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente.

E quale sarà, in questo mondo, il futuro della Chiesa? Sarà condannata a tornare a vivere per alcuni secoli nelle catacombe? Vedrà ridotto ad un gruppetto insignificante il numero dei suoi fedeli?

Il futuro lo conosce solo Dio. A rigor di logica, nessuno potrebbe sorprendersi se tutta la struttura dell’attuale civiltà venisse a crollare fragorosamente e tragicamente, in un grande bagno di sangue. Ma c’è una ragione – e non è l’unica – per sperare che la Provvidenza non permetterà che la Santa Chiesa ritorni alle catacombe per molto tempo.

È il fatto che, tra le desolazioni dell’epoca presente, esiste già un preannuncio di vittoria: l’azione visibile, per così dire, della Santissima Vergine sulla terra. Da Lourdes a Fatima sino ad oggi, quanto più la crisi universale si aggrava, tanto più gli interventi di Maria Santissima divengono numerosi e tangibili.

Si combatte la devozione alla Madonna, non solo fuori della Chiesa ma – horribile dictu – persino in certi ambienti che sono o si suppongo cattolici. Ma invano. Si vede che qui e là la Santissima Vergine continua ad attirare a sé migliaia di anime, e a svolgere un piano di rigenerazione che conduce evidentemente ad un grande e spettacolare finale.

Tutte le circostanze sembrano adeguate ad un immenso trionfo della Vergine.

La crisi è tragica. Si avvicina all’apice.

I mezzi di salvezza restano, a dire il meno, inutilizzati. Noi non meritiamo alcuna grazia eccezionale, ma solo castighi e ancora castighi per i nostri peccati. Tutti gli aspetti di una situazione umanamente perduta sembrano in questo momento non solo tipicamente, ma anche archetipicamente, accumularsi.

Chi ci potrebbe salvare? Soltanto chi avesse verso di noi una condiscendenza illimitata, una compiacenza di Madre, di una Madre illimitatamente buona, generosa, esaudente.

Ma sarebbe necessario che questa Madre fosse allo stesso tempo più potente di tutte le forze della terra, dell’inferno e della carne.

Sarebbe necessario che fosse onnipotente presso il proprio Dio, giustamente irritato per i nostri peccati.

Salvarci in questa situazione sarebbe la più risplendente delle manifestazioni del potere di tale Madre.

Ora noi questa Madre l’abbiamo. Lei è la Madre nostra, e Madre di Dio. Come non accorgersi che tanti disastri e tanti peccati, per così dire, richiedono l’intervento di Maria Santissima, e come non rendersi conto che Lei risponderà a questo clamore?

Quando? Durante il grande dramma che si sta avvicinando? Dopo di questo? Non lo sappiamo.

Però una cosa pare assolutamente probabile: è che Maria Santissima non prepara per la Santa Chiesa, come esito finale di questa crisi, secoli di agonia e dolore, ma un’era di trionfo universale.

Ed è così che, con gli occhi posti verso Maria Santissima, in tutta serenità possiamo rispondere alla domanda, se si debba essere ottimisti o pessimisti: un sano pessimismo ci deve persuadere che meritiamo questo e altro, e forse abbiamo da soffrire molto, moltissimo; ma un ottimismo sano e soprannaturale ci deve persuadere che il trionfo della Chiesa viene preparato dai dolori dei nostri giorni, mediante il completo annientamento dello spirito del mondo.

Questo pessimismo e questo ottimismo costituiscono un realismo sano, perché prendono in considerazione una grande realtà senza la quale qualsiasi visione dei problemi umani sarebbe falsata: la Provvidenza di Maria.


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