Plinio Corrêa de Oliveira:

l’amara soddisfazione di aver previsto tutto

 

 

 

 

 

 

 

Julio Loredo De Izcue | 30-07-2019

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Fino a pochi anni fa, se qualcuno avesse parlato di tribalismo indigeno come soluzione alla crisi del mondo moderno, sarebbe stato deriso e considerato un pazzo. E se qualcuno avesse indicato la tribalizzazione della Chiesa come sbocco naturale del Concilio Vaticano II, forse nemmeno l’ecumenico più ardito avrebbe potuto salvarlo dalla gogna generale. Eppure, proprio l’orizzonte tribale indigeno viene oggi proposto, nel cuore della Cristianità, da un Sinodo dei vescovi voluto dallo stesso Romano Pontefice. Si parla di creare una “Chiesa dal volto amazzonico”, che impari il “buon vivere” dai popoli delle foreste. Secondo l’Instrumentum laboris del Sinodo, “Si conferma così un cammino che è cominciato con il Concilio Vaticano II per tutta la Chiesa”.

In realtà, l’orizzonte tribale indigeno è stato sempre presente nelle utopie rivoluzionarie: dal bon sauvage di Rousseau, a Friedrich Engels, che proponeva la tribù come forma di “socialismo superiore”, fino alle moderne correnti dette strutturaliste. Più recentemente, la soluzione tribale indigena viene presentata da certe correnti ecologiste come panacea per i mali della società industriale. Per non parlare poi degli studi che mostrano come il “villaggio globale” creato dalla rete abbia non poche somiglianze con i modi di essere delle tribù.

Eppure, prima d’oggi, della prospettiva tribale si parlava veramente poco o niente, come se fosse roba di un’altra galassia. C’era chi la negava come fattibile, chi come esagerazione di alcuni fanatici. Oggi, tale atteggiamento negazionista non è più credibile di fronte a un Sinodo che la propone come piano pastorale per il prossimo futuro.

Molti, perfino attenti osservatori della vita della Chiesa, sono stati colti di sorpresa. Non certo i discepoli di Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995).

Attento analista del processo storico rivoluzionario, dagli anni Quaranta il noto pensatore brasiliano già allertava che il mondo moderno stava camminando verso il tribalismo. Nel 1943, criticando certe tendenze nazionaliste che cercavano di rivalutare gli elementi indigeni del Brasile a scapito della tradizione cattolica, egli scrisse: “Non si voglia strappar via dal Brasile il battesimo cattolico, perché il Brasile che dobbiamo amare non è quello selvaggio e pagano, nato dalla carne e dal sangue, bensì quello generato dalla civiltà cristiana grazie alla vera Fede, nato dall’acqua e dallo Spirito Santo”.

In un articolo del 1944, commentando il carnevale, egli ammoniva: “Le persone di oggi (…) si dimostrano insofferenti alla civiltà. (…) Si distruggono le ultime cerimonie, si dissolvono gli ultimi pudori, si sciolgono le ultime dignità. (…) Fra trent’anni, è probabile che lo sfogare [questa insofferenza] consisterà nell’indossare appena un tanga, (…) nel ballare scalzi nella foresta. Nel vivere in capanne, anche se di lusso. (…) Qualcuno dirà: esagerazione! Trent’anni fa, alcuni catoni avevano predetto gli eccessi di oggi. E anche lì alcuni idioti avevano parlato di “esagerazione”. Io dico: l’esagerazione non stava nei profeti, bensì nei fatti, che hanno superato ogni profezia”.

In un altro pezzo, del 1960, dal titolo “Civiltà e barbarie”, Plinio Corrêa de Oliveira avvertiva che alcune tendenze dell’epoca, come il tipo umano del “play boy” e la musica rock-and-roll avrebbero condotto alla barbarie: “Una società nella quale si suonasse esclusivamente il rock-and-roll (…) andrebbe verso la barbarie. Il ‘playboyismo’ non è se non barbarie, anche se nella selva di asfalto”. 

Il suo pensiero in merito è stato poi chiaramente espresso nell’aggiunta al suo capolavoro «Rivoluzione e Contro-Rivoluzione», scritto nel 1976. Scrutando il post comunismo, egli affermava: “Non è impossibile prevedere come sarà la [prossima tappa del processo rivoluzionario]. (…) È impossibile non chiedersi se la società tribale sognata dalle attuali correnti strutturaliste non dia una risposta a questa domanda. Lo strutturalismo vede nella vita tribale una sintesi illusoria tra l’apice della libertà individuale e del collettivismo accettato, in cui quest’ultimo finisce per divorare la libertà. In tale collettivismo, i diversi ‘io’ o le persone singole, con il loro pensiero, la loro volontà e i loro modi di essere, caratteristici e contrastanti, si fondono e si dissolvono – secondo loro – nella personalità collettiva della tribù che genera un modo di pensare, un modo di volere e un modo di essere massivamente comuni”. 

Nel 1977, Plinio Corrêa de Oliveira scrisse un libro tutto dedicato alla denuncia delle correnti indigeniste all’interno della Chiesa: «Tribalismo indigeno, ideale comunista-missionario per il Brasile del secolo XXI». Capitolo dopo capitolo, il leader brasiliano mostra l’abbandono dell’ideale missionario da parte di queste correnti. Non si tratta più di evangelizzare gli indios, bensì di imparare da loro giacché costoro avrebbero conservato una sorta di innocenza primordiale, in comunione con la natura, che la società occidentale avrebbe ormai perso. La tribù è presentata come l’ideale, sia dal punto di vista religioso che sociale. Sotto questa luce, afferma Plinio Corrêa de Oliveira, i popoli amazzonici sarebbero i veri evangelizzatori del mondo.

Sfogliando questo libro del 1977 si ha quasi l’impressione di leggere brani dell’Instrumentum laboris del Sinodo Panamazzonico in programma per il prossimo ottobre. Era tutto previsto… Si capiscono, quindi, le parole del cardinale peruviano Pedro Barreto, vicepresidente della REPAM (Rete Ecclesiale Panamazzonica): “Con questo Sinodo, giunge a maturazione un lungo cammino di 30-40 anni fatto dalla Chiesa latinoamericana”.

Giunge a maturazione anche la previsione, a ben dire profetica, di Plinio Corrêa de Oliveira. 


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