Plinio Corrêa de Oliveira

 

"Elitarismo"

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Folha de S. Paulo, 28 dicembre 1977 (*)

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In più di una pubblicazione ispirata al progressismo, ho trovato l'aggettivo "elitario". In un senso fortemente peggiorativo, ovviamente. Giacché, visto sotto il profilo psicologico, il progressismo è una fusione di tutte le forme di mediocrità, banalità e persino volgarità. Di conseguenza, è visceralmente ostile a qualsiasi forma di selezione, a ogni genere d'élite.

Usando questo aggettivo - così discutibile dal punto di vista della lingua vernacolare - i progressisti più tipici lasciano intendere tra le righe che qualsiasi membro di una élite è, per definizione, uno snob imbevuto di fatuità, mediocre, improduttivo, egoista, capace solo di raggrupparsi con altri "elitari" per formare cricche parassitarie, dedite a succhiare i frutti del lavoro altrui.

Alla luce - che luce! - di questo concetto, gli "elitari" costituirebbero, come abbiamo visto, piccole minoranze. E in cambio, le loro vittime formerebbero la grande moltitudine.

Che ci siano "élites" che corrispondano esattamente al concetto progressista, chi può negarlo? Che queste meritino il ripudio di ogni uomo sensibile, chi vorrà contestarlo? Ma queste "élites", sono davvero élites?

Esse hanno abbandonato il loro vero spirito, hanno rinunciato alla loro missione, sono state invase dalla cancrena e dalla putrefazione.

Un astro spento e senza luce, può essere utilizzato come esempio per indicare cosa sia una stella? Sarebbe come chiedere se, per dare un'idea di cosa sia un uomo, si mostri un cadavere in putrefazione.

Tuttavia, questo è ciò che fa il progressismo con le élites. A partire dal concetto peggiorativo che dà al termine "élite", il progressismo fa un gioco di prestigio che finisce per presentare tutte le élites come "elitarie". In questo modo, tutte le minoranze scelte vengono identificate come sanguisughe della stragrande maggioranza dei lavoratori autentici.

E agli occhi del grande pubblico, il quadro idealmente provocatorio per far esplodere la lotta di classe è così assemblato. Proprio ciò che conviene alla propaganda comunista: da una parte, l'immensa maggioranza della classe operaia, e dall'altra, le diverse minoranze che (maliziosamente confuse con gli "elitari" ostinati, pigri, mediocri e pusillanimi, di cui ho parlato sopra) si distinguono a qualsiasi titolo legittimo: la cultura, il talento, l’istruzione, l’altruismo per il bene pubblico o l’azione di beneficenza, ecc.

L'esito dello shock di queste minoranze con le masse che i comunisti cercano di mettere in effervescenza, non può che essere la deglutizione del topo "elitario" da parte del gatto comunista...

Naturalmente, il panorama "anti-elitario" presentato dai progressisti in favore della propaganda comunista, è falso in quasi tutti i suoi termini. Ma, tra questi, spicca a prima vista la falsità di due di essi. Il primo è che ogni élite è necessariamente "elitaria" nel senso peggiorativo della parola. Abbiamo già visto quanto ci sia di arbitrario e di ingiusto in questa affermazione. L'altro è affermare che, nella moltitudine, e specialmente nella moltitudine della classe operaia, non ci siano élites.

È un errore grossolano immaginare che dell'élite faccia parte solo chi appartiene a minoranze estrinseche alla moltitudine, e che quest’ultima costituisca per definizione un enorme stormo di persone mediocri, o persino carenti da un punto di vista intellettuale, culturale e morale. Di modo tale che un paese si dividerebbe necessariamente in due categorie separate da un abisso: i paradigmatici e gli inadeguati, - i superuomini e i subumani.

A questo proposito, mi sembra essenziale ricordare una verità che non tutti gli storici e i sociologi sottolineano doverosamente.

È generalmente ammesso che i popoli abbiano il governo che si meritano. Il corollario è che ogni popolo ha anche le élites (nel senso autentico, non nel senso peggiorativo) che si merita. L'emergere delle élites, la loro perfetta caratterizzazione e l'intera irradiazione della loro azione benefica sono largamente influenzati dal legame che mantengono con il tutto della popolazione. Non ci sono élites che si conservano integre e vive senza ricevere il frequente arricchimento dei valori provenienti dalla popolazione in generale.

Affinché un'élite assuma pienamente la fisionomia che gli è propria, concorre molto l’adeguata interpretazione e il comunicativo consenso delle moltitudini. E, affinché le élites possano influenzare, la ricettività del popolo è indispensabile.

Di Più. Quando il rapporto élite-popolo è corretto, dal popolo proviene, più e più volte, l'ispirazione delle élites. Per fare un solo esempio tra cento, tra mille, basterebbe ricordare i capolavori musicali ispirati da geniali artisti, basati sulle più semplici melodie popolari.

Il ruolo della popolazione nel plasmare l'anima di un paese, e quindi della sua cultura, dei suoi grandi uomini, della sua azione storica, si spinge così lontano che anche in quelle funzioni solitamente ottenute dalle aristocrazie - di sangue e non – come privilegio e missione peculiare, il popolo svolge una missione di particolare portata.

In effetti, in un certo senso, le classi conservatrici per eccellenza sono più quelle popolari che le alte. Così, in Europa, ad esempio, i vecchi costumi, balli, canti e modi di essere - insomma i modi tipici regionali – sono stati conservati più dal popolino (quello delle campagne), che dalle classi dirigenti delle grandi città. E in Brasile, la classica donna nera dello Stato della Bahia con i suoi vestiti, le sue prelibatezze e il suo folklore ricorda sotto molti aspetti il Brasile di un tempo più dei molti discendenti dai capitani di città, baroni consiglieri o colonnelli della guardia nazionale.

Se le élites decadono, è difficile che non trascinino con sé il popolo. Se il popolo decade mi sembra impossibile che non trascini con sé le élites.

È opportuno distinguere qui un popolo qualsiasi, da un grande popolo. O un popolo nella sua fase ascendente, nel suo periodo di massimo splendore, e un popolo in crisi o in decadenza. Non forzerebbe il significato della parola affermare che un popolo nella sua ascensione o nel suo apice costituisce nel suo insieme, all’interno del congiunto universale dei popoli, un'enorme élite, dentro cui emergono, quasi per distillazione, le élites più piccole e più esemplari. E che è dall'armoniosa combinazione dell’élite-popolo (o élite-maggioranza), con l'élite-minoranza, che nasce la grandezza generale.

Ho scritto per questo giornale, la scorsa settimana, su Winston Churchill e sua moglie. Forse l'Inghilterra non avrebbe vinto la guerra senza la guida del grande uomo, la cui versione femminile era la sua illustre moglie. Ma, d'altra parte, se il Regno Unito non avesse avuto una vera legione di figure d'élite schierate dall'alto verso il basso della gerarchia politica, sociale, economica e militare, nei più svariati comandi dello sforzo armato come della resistenza civile, avrebbe perso la guerra. E, infine, tutta questa costellazione di élites alte, medie e piccole, a cosa sarebbe servita se il popolo inglese non fosse stato un grande popolo? In altre parole, un popolo in cui c'erano necessariamente molti uomini nella media e anche sotto la media, ma pochi uomini mediocri. Molti eroi del campo di battaglia. Ma anche "mini-eroi" disposti a sacrificarsi nella vita civile delle retrovie, mantenendo alto il morale dei vicini, sia nelle ore cupe in cui era necessario sentire, in fondo ai rifugi aerei, la Luftwaffe che polverizzava le città, sia nelle ore malinconiche in cui diventava evidente che l'ampiezza dei bilanci delle case veniva progressivamente erosa dal razionamento di guerra.

Se, invece di tutte queste élites e di tutti questi eroi, di così varia ampiezza e forma, l'Inghilterra avesse avuto, da cima a fondo, da Buckingham Palace fino alle miniere di carbone, non uomini grandi o medi, ma mediocri, uomini non eroici, ma pusillanimi, oggi non sarebbe altro che una memoria storica...

In definitiva, l'antitesi élite-popolo che il progressismo vuole inculcare, dipingendo la realtà come se tra queste e quelle corra un abisso, una oscura e minacciosa soluzione di continuità, è una farsa. Questa soluzione di continuità esiste solo quando il popolo e le élites stanno più o meno morendo e si distaccano: piccole scuole artificiali da una parte, grandi masse anonime dall'altra.

Queste considerazioni sono già troppo ampie. Le chiudo qui citando un brillante testo di Pio XII su popolo e massa:

"Lo Stato non contiene in sé e non aduna meccanicamente in un dato territorio un'agglomerazione amorfa d'individui. Esso è, e deve essere in realtà, l'unità organica e organizzatrice di un vero popolo.

"Popolo e moltitudine amorfa o, come suol dirsi, «massa» sono due concetti diversi. Il popolo vive e si muove per vita propria; la massa è per sé inerte, e non può essere mossa che dal di fuori. Il popolo vive della pienezza della vita degli uomini che lo compongono, ciascuno dei quali — al proprio posto e nel proprio modo — è una persona consapevole delle proprie responsabilità e delle proprie convinzioni. La massa, invece, aspetta l'impulso dal di fuori, facile trastullo nelle mani di chiunque ne sfrutti gl'istinti o le impressioni, pronta a seguire, a volta a volta, oggi questa, domani quell'altra bandiera. Dalla esuberanza di vita d'un vero popolo la vita si effonde, abbondante, ricca, nello Stato e in tutti i suoi organi, infondendo in essi, con vigore incessantemente rinnovato, la consapevolezza della propria responsabilità, il vero senso del bene comune. Della forza elementare della massa, abilmente maneggiata ed usata, può pure servirsi lo Stato: nelle mani ambiziose d'un solo o di più, che le tendenze egoistiche abbiano artificialmente raggruppati, lo Stato stesso può, con l'appoggio della massa, ridotta a non essere più che una semplice macchina, imporre il suo arbitrio alla parte migliore del vero popolo: l'interesse comune ne resta gravemente e per lungo tempo colpito e la ferita è bene spesso difficilmente guaribile" (Radiomessaggio di Natale del 1944, "Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII", vol. VI, pp. 238-239).

Il lettore presti molta attenzione a quello che dice il rimpianto Pontefice sul popolo, quello vero. E vedrà che, da cima a fondo, non è altro che un sano e magnifico ingranaggio di élites: d’oro e d’argento, le più alte. Di nobile e bel bronzo, le più modeste.

Così si distrugge l’antipatica antitesi élite-popolo coinvolta nel doloroso aggettivo "elitario" del vocabolario progressista.

Nota: I neretti sono di questo sito.


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