Plinio Corrêa de Oliveira

 

 

- VI -

 

La soluzione

 

 

 

 

 

 

 

 

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In queste condizioni, i cattolici dovrebbero rifiutare la coesistenza pacifica della Chiesa con il comunismo perché:

1. L’ordine temporale esercita un’azione formatrice - o deformante - profonda sull’anima dei popoli e degli individui. La Chiesa non può, quindi, accettare una libertà che comporti il silenzio sugli errori del regime comunista, creando nel popolo la impressione che essa non li condanni.

2. Rinunciando a insegnare i precetti del decalogo che fondano la proprietà privata (settimo e decimo comandamento), la Chiesa presenterebbe una immagine sfigurata di Dio stesso. L’amore di Dio, la pratica della virtù della giustizia e il pieno sviluppo delle facoltà dell’uomo, e pertanto, la sua santificazione, sarebbero in questo modo gravemente pregiudicati.

3. La Chiesa non può accettare il comunismo come un fatto compiuto e un "male minore".

1. Circa la prima condizione, ci sembra che la risposta debba essere negativa, in considerazione della forza persuasiva di una metafisica e di una morale concretizzate in un regime, in una cultura, in un ambiente.

La missione docente della Chiesa non consiste solo nell’insegnare la verità, ma anche nel condannare l’errore. Nessun insegnamento della verità è sufficiente in quanto insegnamento, se non include la enunciazione e la confutazione delle obiezioni che si possono fare contro la verità stessa. "La Chiesa - ha detto Pio XII - piena sempre di carità e di bontà verso le persone di quei traviati, fedele tuttavia alla parola del divino suo Fondatore, che ha dichiarato: "Chi non è con me, è contro di me" (Matth. 12, 30), non può mancare al dovere di denunciare l’errore, di togliere la maschera ai "fabbricatori di menzogne" (Iob. 13, 4) [...]" (5). Nello stesso senso si è espresso Pio XI: "Il primo e il più ovvio dono di amore del sacerdote al mondo è di servire la verità, tutta intera la verità, smascherare e confutare l’errore, qualunque sia la forma o il suo travestimento" (6).

Fa parte dell’essenza stessa del liberalismo religioso la falsa massima secondo cui per insegnare la verità non è necessario impugnare e confutare l’errore. Non vi è formazione cristiana adeguata che prescinda dall’apologetica. Riesce particolarmente importante notarlo, di fronte al fatto che la maggior parte degli uomini tende ad accettare come normale il regime politico e sociale in cui nasce e vive, e che il regime esercita a questo titolo una profonda influenza formativa sulle anime.

Per misurare in tutta la sua portata il potere di questa azione formativa, la esaminiamo nella sua ragion d’essere e nel suo modo d’operare.

Ogni regime politico, economico e sociale si basa, in ultima analisi, su di una metafisica e su di una morale. Le istituzioni, le leggi, la cultura e i costumi che lo formano, o che gli sono relativi, riflettono nella pratica i principi di questa metafisica e di questa morale.

Per il fatto stesso di esistere, con il naturale prestigio del potere pubblico, come pure con l’enorme forza dell’ambiente e dell’abitudine, il regime induce la popolazione ad accettare come buoni, normali, perfino indiscutibili, la cultura e l’ordine temporali vigenti, che sono le conseguenze dei principi metafisici e morali dominanti. E, accettando tutto questo, lo spirito pubblico finisce per spingersi più oltre, lasciandosi penetrare - come per osmosi - da questi stessi principi, abitualmente intravisti in modo confuso, inconsapevole, ma molto vivo, dalla maggior parte delle persone.

L’ordine temporale esercita dunque un’azione formativa - o deformante - profonda sull’anima dei popoli e degli individui.

Vi sono epoche in cui l’ordine temporale si fonda su princìpi contradditori, che convivono in ragione di un certo scetticismo di intonazione quasi sempre pragmatistica. In generale, questo scetticismo pragmatico passa poi alla mentalità delle moltitudini.

Vi sono altre epoche in cui i principi metafisici e morali che costituiscono l’anima dell’ordine temporale sono coerenti e monolitici, nella verità e nel bene come nell’Europa del secolo XIII, o nell’errore e nel male come nella Russia o nella Cina dei nostri giorni. In tali casi, questi principi possono imprimersi a fondo nei popoli che vivono in una società temporale da essi ispirata.

Vivere in un ordine di cose così coerente nell’errore e nel male è già di per sé un tremendo invito all’apostasia.

Nello Stato comunista, ufficialmente filosofico e settario, questa impregnazione dottrinale della massa è fatta con intransigenza, ampiezza e metodo, e completata da un indottrinamento esplicito instancabilmente ripetuto a ogni proposito.

Lungo tutta la storia, non vi è esempio di pressione più completa nel suo contenuto dottrinale, più sottile e polimorfica nei suoi metodi, più brutale nei suoi momenti di azione violenta, di quella esercitata dai regimi comunisti sui popoli che sono sotto il loro giogo.

In uno stato così totalmente anticristiano non vi è modo di evitare questa influenza se non istruendo i fedeli su ciò che ha di rovinoso.

Di fronte a un tale avversario, più ancora che di fronte a qualsiasi altro, la Chiesa non può, dunque, accettare una libertà che implica la rinuncia esplicita ed effettiva all’esercizio, aperto ed efficace, della sua funzione apologetica.

2. Circa la seconda condizione, anch’essa non ci sembra accettabile, tenendo presente non solo l’assoluta incompatibilità tra il comunismo e la dottrina cattolica, ma in modo particolare il diritto di proprietà nelle sue relazioni con l’amore di Dio, la virtù della giustizia e la santificazione delle anime.

Per rifiutare questa seconda condizione vi è anzitutto una ragione di carattere generale. La dottrina comunista, atea, materialistica, relativistica, evoluzionistica, contrasta nel modo più radicale con la concezione cattolica di un Dio personale, che ha dato agli uomini una legge in cui sono racchiusi tutti i principi della morale, fissi, immutabili e conformi all’ordine naturale. La "cultura" comunista, considerata in tutti i suoi aspetti e in ciascuno di essi, porta alla negazione della morale e del diritto. Il contrasto del comunismo con la Chiesa non si dà, dunque, solo in materia di famiglia e di proprietà, ed è soprattutto la morale, soprattutto le nozioni di diritto che la Chiesa dovrebbe in questo caso tacere.

Non vediamo, pertanto, a quale risultato tattico potrebbe condurre un "armistizio ideologico" tra cattolici e comunisti circoscritto a questi due punti, se in tutti gli altri la lotta ideologica continuasse.

Consideriamo, tuttavia, argumentandi gratia, l’ipotesi di un silenzio della Chiesa solo a proposito della famiglia e della proprietà privata.

È tanto evidentemente assurdo ammettere che essa accetti restrizioni quanto alla sua predicazione in materia di famiglia che non ci fermiamo neppure all’analisi di questa ipotesi.

Ma immaginiamo che uno Stato comunista dia alla Chiesa tutta la libertà di predicare sulla famiglia, non però sulla proprietà privata. Che cosa potremmo allora rispondere?

A prima vista, si potrebbe dire che la missione della Chiesa consiste essenzialmente nel promuovere la conoscenza e l’amore di Dio, più che nel preconizzare o mantenere un regime politico, sociale o economico; e che le anime possono conoscere e amare Dio senza essere istruite sul principio della proprietà privata.

La Chiesa potrebbe, dunque, accettare come un male minore il compromesso di tacere sul diritto di proprietà, per ricevere in cambio la libertà di istruire e santificare le anime, parlando loro di Dio e del destino eterno dell’uomo, e amministrando i sacramenti.

Questo modo di vedere la missione docente e santificatrice della Chiesa, urta contro una obiezione preliminare. Se un governo terreno esige da essa - come condizione per essere libera - che rinunci alla predicazione di qualche precetto della Legge, essa non potrà accettare questa libertà, che sarebbe solo un simulacro ingannatore.

Affermiamo che questa "libertà" sarebbe un simulacro ingannatore, perché la missione magisteriale della Chiesa ha per oggetto l’insegnamento di una dottrina che costituisce un tutto indivisibile. O essa è libera di compiere il mandato di Gesù Cristo insegnando questo tutto, o deve considerarsi oppressa e perseguitata. Se non le si riconosce questa libertà totale, essa dovrà - conformemente alla sua natura militante - scendere in lotta contro l’oppressore. La Chiesa, nella sua funzione docente, non può accettare un mezzo silenzio, una mezza oppressione, per ottenere una mezza libertà. Sarebbe un completo tradimento della sua missione.

* * *

Oltre a questa obiezione preliminare, basata sulla missione docente della Chiesa, se ne potrebbe portare un’altra, concernente la sua funzione come educatrice della volontà umana per il raggiungimento della santità.

Questa obiezione si fonda sul fatto che la chiara conoscenza del principio della proprietà privata, e il rispetto di questo principio nella pratica, sono assolutamente indispensabili per la formazione genuinamente cristiana delle anime:

a) Dal punto di vista dell’amore di Dio: la conoscenza e l’amore della Legge sono inseparabili dalla conoscenza e dall’amore di Dio. Infatti la Legge è in qualche modo lo specchio della santità divina. E quanto si può dire di ognuno dei suoi precetti, è vero soprattutto quando la si considera nel suo insieme. Rinunciare all’insegnamento dei due precetti del decalogo che fondano la proprietà privata, comporterebbe la presentazione di una immagine sfigurata di questo insieme, e pertanto di Dio stesso. Ora, quando le anime hanno un’idea sfigurata a proposito di Dio, si formano secondo un modello errato, il che è incompatibile con la vera santificazione.

b) Dal punto di vista della virtù cardinale della giustizia: le virtù cardinali sono, come dice il nome, cardini sui quali si appoggia tutta la santità. Perché l’anima si santifichi, deve conoscerle rettamente, amarle sinceramente e praticarle genuinamente.

Tutta la nozione di giustizia si fonda sul principio che ogni uomo, il suo prossimo individualmente considerato e la società umana sono rispettivamente titolari di diritti, cui corrispondono naturalmente dei doveri. In altri termini, le nozioni di "mio" e di "tuo" stanno alla base del più elementare concetto di giustizia.

Ora, proprio queste nozioni di "mio" e di "tuo" in materia economica, portano direttamente e ineluttabilmente al principio della proprietà privata.

Da ciò deriva che, senza la retta conoscenza della legittimità e dell’estensione - come d’altra parte anche della limitazione - della proprietà privata, non c’è retta conoscenza di cosa sia la virtù cardinale della giustizia. E senza questa conoscenza non sono possibili né un vero amore, né una vera pratica della giustizia; insomma, non è possibile la santificazione.

c) Da un punto di vista più generale, del pieno sviluppo delle facoltà dell’anima e della sua santificazione: l’esposizione di questo argomento presuppone come dato che la retta formazione dell’intelligenza e della volontà, per molti aspetti è strumento atto a favorire la santificazione, e per altri si identifica perfino con essa. E che, a contrario sensu, tutto quando pregiudica la retta formazione dell’intelligenza e della volontà, per molti aspetti è incompatibile con la santificazione.

Passiamo a dimostrare che una società nella quale non esista la proprietà privata ostacola in modo grave il retto sviluppo delle facoltà dell’anima. specialmente della volontà; perciò, di per sé, è incompatibile con la santificazione degli uomini.

Di passaggio, faremo anche riferimento al pregiudizio che, per ragioni analoghe, la comunanza dei beni arreca alla cultura, Lo faremo, perché il vero sviluppo culturale non solo è un fattore propizio alla santificazione dei popoli, ma anche un frutto di questa santificazione; perciò la retta vita culturale ha un’intima connessione con il nostro tema.

Affrontiamo l’argomento ponendo in evidenza un punto essenziale, frequentemente trascurato da quanti trattano dell’istituto della proprietà privata, e cioè che esso è necessario all’equilibro e alla santificazione dell’uomo.

Per dare ragione di questa tesi bisogna ricordare, anzitutto, che i documenti pontifici, quando trattano del capitale del lavoro e della questione sociale, non lasciano il minimo dubbio quanto al fatto che la proprietà privata non è solo legittima, ma anche indispensabile al bene individuale e al bene comune, e questo per quanto si riferisce tanto agli interessi materiali dell’uomo, quanto a quelli della sua anima.

È ben certo che questi stessi documenti papali sono insorti con forza contro i numerosi eccessi e abusi che, principalmente a partire dal secolo XIX, si sono verificati in materia di proprietà privata. Il fatto però che siano molto riprovevoli e dannosi gli abusi che gli uomini fanno di una istituzione, non vuole assolutamente dire che per questo essa non sia intrinsecamente eccellente. Anzi, si deve tendere il più delle volte a pensare il contrario: corruptio optimi pessima - il pessimo è, forse, quasi sempre la corruzione di ciò che in sé stesso è ottimo. Nulla di più sacro e di più santo in sé stesso e da tutti i punti di vista, del sacerdozio. Nulla di peggiore della sua corruzione. E perciò stesso si comprende come la Santa Sede, tanto severa contro gli abusi della proprietà privata, sia ancora più severa quando reprime gli abusi del sacerdozio.

Molteplici sono i motivi per cui l’istituto della proprietà privata è indispensabile agli individui, alle famiglie e ai popoli. Eccederebbe i limiti del presente lavoro una esposizione completa di questi motivi. Ci limitiamo alla spiegazione di quanto importa più direttamente al nostro tema: come abbiamo appena affermato, tale istituto è necessario all’equilibrio e alla santificazione dell’uomo.

Naturalmente dotato di intelligenza e di volontà, l’uomo tende, con le sue stesse facoltà spirituali, a provvedere a tutto quanto è necessario al suo bene. Da ciò gli deriva il diritto di procurarsi da sé stesso le cose di cui necessita e di impossessarsene quando non hanno padrone. Da ciò gli deriva anche il diritto di provvedere in modo stabile alle sue necessità del futuro, prendendo possesso del suolo, coltivandolo e producendo per questa coltivazione i suoi strumenti di lavoro. Insomma, l’uomo tende inoppugnabilmente a essere proprietario proprio perché ha un’anima. Ed è in questo, dicono Leone XIII e san Pio X, che la sua posizione di fronte ai beni materiali lo distingue dagli animali irrazionali: "IV. L’uomo ha sui beni della terra non solo il semplice uso, come i bruti; ma sì ancora il diritto di proprietà stabile: né soltanto proprietà di quelle cose, che si consumano usandole; ma eziandio di quelle cui l’uso non consuma. (Encycl. Rerum novarum)" (7).

Ora, siccome dirigere il proprio destino e provvedere al proprio sostentamento è oggetto prossimo, necessario e costante dell’esercizio dell’intelligenza e della volontà – e la proprietà è mezzo normale perché l’uomo sia e si senta sicuro del suo avvenire e padrone di sé -, ne deriva che l’abolizione della proprietà privata, e di conseguenza l’abbandono dell’individuo, come termine inerme, ala direzione dello Stato, significa privare la sua mente di alcune condizioni basilari del suo funzionamento normale, significa portare all’atrofia per in esercizio le facoltà della sua anima significa insomma deformarlo profondamente. Di qui, in gran parte, la tristezza che caratterizza le popolazioni soggette al comunismo, come pure la noia, le nevrosi e i suicidi sempre più frequenti in certi paesi dell’Occidente, abbondantemente socialisti.

Si sa bene, infatti, che le facoltà dell’anima, che non si esercitano, tendono ad atrofizzarsi. Al contrario, l’esercizio adeguato può svilupparle, talora perfino prodigiosamente. Su questo si fonda un grande numero di pratiche didattiche e ascetiche approvate dai migliori maestri, e consacrate dall’esperienza.

Poiché la santità è la perfezione dell’anima, si comprende facilmente quanta importanza ha per la salvezza e la santificazione degli uomini quanto da ciò si conclude. La condizione di proprietario, di per sè, crea situazioni altamente propizie al retto e virtuoso esercizio delle facoltà dell’anima. Senza accogliere l’ideale utopistico di una società in cui ogni individuo, senza eccezione, sia proprietario, o nella quale non vi siano patrimoni disuguali, grandi, medi e piccoli, bisogna affermare che la maggiore diffusione possibile della proprietà favorisce il bene spirituale, e ovviamente anche quello culturale, sia degli individui, sia delle famiglie, sia della società. In senso contrario, la proletarizzazione crea condizioni altamente sfavorevoli per la salvezza, la santificazione e la formazione culturale dei popoli, delle famiglie e degli individui.

Per maggiore comodità di esposizione, prendiamo subito in considerazione alcune obiezioni alla tesi appena esposta:

* Coloro che, nelle società in cui c’è la proprietà privata, non sono proprietari restano privi di uso di ragione? O non si possono santificare?

Per rispondere a questa domanda, bisogna tenere presente che la proprietà privata è una istituzione che favorisce indirettamente, ma realmente, anche i non proprietari. Essendo dunque grande il numero delle persone che traggono adeguato vantaggio dai benefici morali e culturali che la condizione di proprietario conferisce loro, ne risulta un ambiente sociale elevato, che attraverso la naturale comunicazione delle anime favorisce anche i non proprietari. La situazione in cui costoro si vengono a trovare non è dunque identica a quella degli individui che vivono in un regime nel quale non esiste nessuna proprietà.

* La proprietà privata è dunque la causa della elevazione morale e culturale dei popoli?

Diciamo che la proprietà è condizione importantissima del bene spirituale e culturale degli individui, delle famiglie e dei popoli. Non diciamo che essa è la causa della santificazione. Allo stesso modo la libertà della Chiesa è condizione per il suo sviluppo; ma la Chiesa perseguitata fiorì meravigliosamente nelle catacombe. Sarebbe esagerato dire, per esempio, che il popolo è necessariamente tanto più virtuoso e colto quanto più è diffusa la proprietà. Questo significherebbe far dipendere il soprannaturale dalla materia, e la cultura dall’economia.

Però è certo che a nessun popolo è lecito contraddire il disegno della Provvidenza, abolendo una istituzione imposta dall’ordine naturale delle cose quale è la proprietà privata, istituzione che è condizione molto importante per il bene delle anime, tanto sul piano religioso che su quello culturale. E se qualche popolo procede in questo modo, prepara i fattori della sua degradazione morale e culturale, e perciò della sua completa rovina.

* Se le cose stanno così, come mai si ebbe tanta cultura nella Roma imperiale, ove la maggioranza della popolazione era costituita da proletari e da schiavi? E come poterono alcuni schiavi, a Roma come in Grecia, portarsi a un elevato livello morale e culturale?

La differenza tra una stanza completamente buia, e un’altra illuminata da una luce fioca, è maggiore di quella esistente tra quella dalla luce fioca e un’altra meravigliosamente illuminata. E questo si verifica perché il male prodotto dalla carenza totale di un bene importante, come sarebbe in questo caso la luce, è sempre incomparabilmente maggiore di quello prodotto dalla insufficienza del bene stesso. La società romana aveva, sebbene in misura minore del desiderabile, una vasta e colta classe di proprietari. Da ciò l’esistenza nell’impero, almeno in una certa proporzione, dei benefici culturali della proprietà. Ben altra sarebbe la situazione di un paese assolutamente privo di una classe di proprietari; da questo punto di vista sarebbe completamente nelle tenebre.

Si obietterà forse che l’esperienza contrasta con questa conclusione teorica. Infatti, nel popolo russo si riscontra un innegabile progresso culturale e tecnico, a dispetto della comunanza di beni imposta dal regime marxista.

Anche a questo proposito la risposta non è difficile.

All’arbitrio del governo sovietico sono soggette le risorse raccolte da tutti gli angoli di un vastissimo impero. Esso dispone arbitrariamente delle capacità, del lavoro e della produzione di centinaia di milioni di persone.

Perciò non gli sono assolutamente mancati i mezzi per formare alcuni ambienti artificiali, di alta preparazione tecnica o culturale (anticulturale, si dovrebbe più propriamente dire). Senza negare la mole dei risultati così raggiunti, si può molto legittimamente esprimere una certa sorpresa per il fatto che essi non siano di gran lunga maggiori. Infatti, se uno Stato-moloc, assolutamente contro natura, non produce risultati-moloc nell’ordine delle cose artificiali, questo succede perché di fatto non possiede il segreto dell’efficacia.

Inoltre, questa fioritura intellettuale di serra è completamente separata dalla popolazione, non è prodotta dalla società, non deriva da una maturazione nel suo seno, ma è ottenuta fuori di essa, e con il sangue a essa succhiato. Cresce e si afferma senza di essa, e in un certo modo contro di essa.

Simile produzione non è indice della cultura di una nazione; allo stesso modo, in una immensa proprietà rurale in abbandono, i prodotti di una serra ivi esistente non sarebbero prova valida del fatto che la proprietà è debitamente coltivata.

Ritornando all’obiezione relativa alla Roma imperiale, vi furono certamente schiavi che si elevarono a livelli intellettuali e morali stupendi: meraviglie della grazia sul piano morale, e della natura, che ancora oggi riempiono di stupore. Si tratta di eccezioni gloriose che non sono sufficienti per negare la verità ovvia che la condizione servile, di per sé, è oppressiva e pregiudizievole per l’anima dello schiavo, sia dal punto di vista religioso che da quello culturale; e che la schiavitù, già di per sé moralmente e naturalmente nociva, la sarebbe stata incomparabilmente più per gli stessi schiavi dell’antichità, se non ci fossero stati patrizi e plebei liberi, e se la società fosse stata costituita solo da uomini senza autonomia né proprietà, come succede nel regime comunista.

* Ma - si argomenterà infine - lo stato religioso è allora intrinsecamente nocivo alle anime, a causa dei voti di obbedienza e di povertà che lo costituiscono? Non atrofizzano essi la tendenza dell’uomo a provvedere a sé stesso?

La risposta è facile. Questo stato è profondamente benefico per le anime che la grazia attira su vie eccezionali. Se immaginassimo questo stato come vissuto da tutta una società, sarebbe nocivo, perché quanto conviene alle eccezioni non conviene a tutti. Perciò la comunanza dei beni tra i fedeli non è mai stata generalizzata nella Chiesa primitiva, e ha finito per essere eliminata, E le esperienze protestantiche di tipo comunista di certe collettività del secolo XVI si sono concluse con uno strepitoso insuccesso.

Considerati questi molteplici argomenti e obiezioni, rimane ferma la tesi secondo cui è vano tacere sull’immoralità della totale comunanza dei beni, per ottenere in cambio la santificazione delle anime attraverso la libertà e una relativa libertà della predicazione.

D’altra parte, una volta accettato questo patto mostruoso, non sarebbe perciò praticabile la coesistenza sognata. Infatti, in una società senza proprietà privata, le anime rette tenderebbero sempre, e per il dinamismo stesso della loro virtù, a creare condizioni per sé favorevoli. Poiché tutto quanto esiste tende a lottare per la propria sopravvivenza, distruggendo le condizioni avverse, e instaurando condizioni favorevoli; a contrario sensu, tutto quanto cessa di lottare contro le condizioni gravemente avverse viene da esse distrutto.

Di conseguenza, la virtù sarebbe in continua lotta contro la società comunista in cui fiorisse e tenderebbe continuamente a eliminare la comunanza dei beni; e la società comunista sarebbe in continua lotta contro la virtù, e tenderebbe a soffocarla. Tutto questo è proprio l’esatto contrario della coesistenza sognata.

3. Circa la terza condizione, ci sembra ugualmente inaccettabile, poiché la necessità di tollerare un male minore non può comportare la rinuncia alla sua eliminazione totale.

Quando la Chiesa decide di tollerare un male minore, non vuole con ciò dire che questo male non debba venire combattuto con tutta la forza possibile. A fortiori quando questo male "minore" è in sé stesso gravissimo.

In altri termini, essa deve formare nei fedeli, e in essi rinnovare in ogni momento, un dolore vivissimo per la necessità di accettare il male minore; e, con il dolore, deve suscitare in essi il proposito efficace di fare tutto il possibile per rimuovere le condizioni che hanno reso necessaria l’accettazione del male minore.

Ora, così agendo, la Chiesa romperà la possibilità della coesistenza; e tuttavia, a quanto ci sembra, sotto l’imperativo della sua sublime missione non potrebbe agire diversamente.

Note:

(5) PIO XII, Radiomessaggio natalizio ai popoli di tutto il mondo, del 24-12-1947, in Discorsi e Radiomessaggi, vol. IX, p. 393.

(6) PIO XI, Enciclica Mit brennender Sorge, del 14-3-1937, in AAS, vol. XXIX, p. 163.

(7) SAN PIO X, Motu proprio Dell’azione Popolare cristiana, del 18-12-1903, vol. XXXVI, in ASS, pp. 341-343. [Il testo del documento è trascritto in Cristianità, Piacenza novembre-dicembre 1973, anno I, n. 2 (N.d.T.)].

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