Plinio Corrêa de Oliveira

 

 

VII - Soluzione di obiezioni finali

 

 

 

 

 

 

 

 

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Un effetto collaterale, ma tragico, del silenzio della Chiesa sul principio della proprietà privata sarebbe il fatto che, in questo modo, essa verrebbe a patti con la diffusione progressiva della miseria, derivante dalla sostituzione della proprietà individuale con quella collettiva.

* Anche in uno Stato non completamente collettivizzato, la Chiesa è obbligata a far brillare agli occhi di tutti la verità integrale.

* Anche se il senso della proprietà, così radicato, fosse inestirpabile in certe regioni d’Europa, la Chiesa non potrebbe tacere a proposito del diritto di proprietà, senza danno per la formazione morale dei fedeli.

* L’istituto della proprietà privata deve esistere secondo lo stesso ordine naturale delle cose. E anche se gli attuali proprietari rinunciassero ai loro diritti sotto la pressione di uno Stato comunista, la Chiesa non potrebbe ottenere una coesistenza veramente pacifica con questo.

* La Chiesa non può accettare il regime comunista neppure a titolo transitorio, sperando che crolli o almeno si attenui.

* Le relazioni diplomatiche della Santa Sede con i paesi comunisti si situano su di un piano diverso da quello preso in esame in questo studio. L’insegnamento ufficiale e ufficioso del Vaticano affermano la impossibilità di una tregua ideologica o di una coesistenza pacifica tra la Chiesa e il comunismo. In questo senso non mancano neppure dichiarazioni di fonte comunista.

* Infine, la Chiesa non potrebbe accettare la coesistenza con qualche Stato comunista in un regime di "pia fraus". Sarebbe ingenuo pensare che i comunisti non si accorgano subito delle violazioni del patto.

Nel corso di questo studio abbiamo risolto diverse obiezioni immediatamente collegate ai diversi temi trattati. Analizzeremo ora altre obiezioni che, non dovendo essere necessariamente abbordate nel corso dell’esposizione sono contenute, per maggiore comodità del lettore, in questa parte.

1. Difendendo a questo modo il diritto di proprietà, la Chiesa abbandonerebbe la lotta contro la miseria e la fame.

Questa obiezione ci offre la possibilità di esaminare gli effetti catastrofici che potrebbe produrre, dal punto di vista del bene temporale, il silenzio della Chiesa in materia di proprietà, nello Stato comunista.

Analizzate dunque le principali obiezioni che si potrebbero fare a un tale silenzio, dal punto di vista della missione docente, e dal punto di vista della missione santificatrice della Chiesa, prendiamo in considerazione un effetto secondario, ma interessante, del silenzio medesimo: essa verrebbe così a patti con la diffusione progressiva della miseria in una situazione mondiale segnata dal progresso della collettivizzazione.

Ciascun uomo cerca, con un moto istintivo continuo, potente e fecondo, di provvedere anzitutto alle sue necessità personali. Quando si tratta della propria conservazione, l’intelligenza umana lotta più facilmente contro le sue limitazioni, e cresce in acume e agilità; la volontà vince con più facilità la pigrizia e affronta con maggiore vigore gli ostacoli e le lotte.

Questo istinto, quando è contenuto nei giusti limiti, non deve essere contrastato, ma deve anzi essere sostenuto e utilizzato come un prezioso fattore di arricchimento e di progresso, e in nessun modo può essere qualificato in senso peggiorativo come egoismo. Si tratta dell’amore verso sé stessi, che secondo l’ordine naturale delle cose deve venire dopo l’amore per il Creatore, e prima dell’amore per il prossimo.

Dalla negazione di queste verità rimarrebbe vanificato il principio di sussidiarietà, presentato dall’enciclica Mater et Magistra come elemento fondamentale della dottrina sociale cattolica (8).

Infatti, in virtù di questa gerarchia nella carità, ogni uomo deve provvedere direttamente a sé stesso, per quanto sta nelle sue possibilità personali, ricevendo l’aiuto dei gruppi superiori - famiglia, corporazione, Stato - solo nella misura in cui gli sia impossibile fare da sé. E in virtù dello stesso principio la famiglia e la corporazione (enti collettivi dei quali pure si deve dire che "omne ens appetit suum esse") provvedono anzitutto e direttamente per sé, ricorrendo allo Stato solo quando sia indispensabile. E lo stesso si ripete per quanto riguarda le relazioni tra lo Stato e la società internazionale.

In conclusione, sia per i dettami della sua ragione, sia per il suo stesso istinto, tutto nella natura di ogni uomo richiede che esso si impadronisca di beni per garantire la sua esistenza, e per renderla piena, decorosa e tranquilla. E il desiderio di possedere averi propri e di moltiplicarli, è il grande stimolo del lavoro e pertanto un fattore essenziale dell’abbondanza della produzione.

Come si vede, l’istituto della proprietà privata, che è il corollario necessario di questo desiderio, non può essere considerato come semplice fondamento di privilegi personali; esso è condizione indispensabile ed efficacissima della prosperità di tutto il corpo sociale.

Il socialismo e il comunismo affermano che l’individuo esiste principalmente per la società, e deve produrre direttamente, non per il proprio bene, ma per quello di tutto il corpo sociale.

Con questo, cessa il migliore stimolo del lavoro, la produzione diminuisce inevitabilmente, si generalizzano in tutta la società l’indolenza e la miseria. E l’unico mezzo - ovviamente insufficiente - che la pubblica autorità può usare come stimolo della produzione è la frusta...

Non neghiamo che nel regime di proprietà privata possa accadere - e frequentemente è accaduto - che i beni prodotti in abbondanza circolino difettosamente nelle diverse parti del corpo sociale, qui accumulandosi e altrove scarseggiando. Questa constatazione spinge a fare tutto il possibile a favore di una proporzionata diffusione della ricchezza nelle diverse classi sociali. Non è però una ragione sufficiente perché rinunciamo alla proprietà privata, e alla ricchezza che da essa nasce, per rassegnarci al pauperismo socialista.

2. Per uno Stato non completamente collettivizzato non valgono gli argomenti contrari alla coesistenza della Chiesa con uno Stato totalmente collettivizzato.

Secondo certe notizie della stampa alcuni governi comunisti enunciano il proposito, pari passu con la concessione di una certa libertà religiosa, di operare un arretramento parziale sulla via del socialismo, ammettendo, di fatto se non di diritto, e a titolo provvisorio, alcune forme di proprietà privata. In questo caso, si dirà, l’influenza del regime sulle anime sarebbe meno funesta. La predicazione e l’insegnamento cattolico non potrebbero allora accettare di passare sotto silenzio non necessariamente il principio della proprietà privata, ma tutta la portata che esso ha nella morale cattolica?

A questa obiezione si potrebbe rispondere che i regimi più brutalmente antinaturali - o gli errori più evidenti e dichiarati - non sono sempre quelli che giungono a deformare più profondamente le anime. L’errore scoperto o l’ingiustizia brutale, per esempio, suscitano indignazione e causano orrore, mentre sono accettate più facilmente come normali le mezze ingiustizie e come verità i mezzi errori, e le une e gli altri corrompono più rapidamente le mentalità. Fu molto più facile combattere l’arianesimo del semiarianesimo, il pelagianesimo del semipelagianesimo, il protestantesimo del giansenismo, la rivoluzione brutale del liberalismo, il comunismo del socialismo moderato. Ne consegue che la missione della Chiesa non consiste solo nel combattere gli errori brutalmente radicali ed evidenti, ma nell’espungere dalla mente dei fedeli ogni e qualsiasi errore, per quanto tenue sia, per far brillare agli occhi di tutti la verità integrale e senza macchia, insegnata da nostro Signore Gesù Cristo.

3. Il senso della proprietà è a tal punto radicato nei contadini di certe regioni d’Europa, che si può trasmettere di generazione in generazione, quasi con il latte materno, con il semplice insegnamento del catechismo in famiglia. Di conseguenza, la Chiesa potrebbe tacere sul diritto di proprietà per decenni, senza arrecare pregiudizio alla formazione morale dei fedeli.

Non neghiamo che il senso della proprietà sia vivo in alcune regioni d’Europa. È noto che proprio per questo i comunisti hanno dovuto retrocedere nella loro politica di confisca e, per esempio, restituire terre ai piccoli proprietari della Polonia.

Tuttavia, queste ritirate strategiche, frequenti nella storia del comunismo, costituiscono per i suoi seguaci soltanto prese di posizione occasionali, a cui talora si rassegnano, per vincere in modo più completo. Però, appena le circostanze glielo permettono, tornano alla carica con astuzia ed energia raddoppiate.

Sarà allora il momento di maggiore pericolo. Esposti all’azione della tecnica di propaganda più astuta e perfezionata, i contadini avranno da sopportare per un tempo indeterminato l’offensiva ideologica marxista.

Chi non si spaventerebbe immaginando esposta a questo rischio la giovane generazione di qualunque parte della terra? Ammettere che il semplice senso abituale e naturale della proprietà personale costituisca normalmente una corazza del tutto rassicurante nei confronti di un pericolo così grande, significa riporre eccessiva fiducia in un fattore umano. In realtà, senza l’azione diretta e soprannaturale della Chiesa, che prepara i suoi figli con tutta la preveggenza e li assiste nella lotta, è poco probabile che fedeli di qualsiasi paese e di qualsiasi condizione sociale resistano alla prova.

Inoltre, come abbiamo detto, non ci sembra giusto che la Chiesa, in qualsiasi caso, sospenda per decenni l’esercizio della sua missione, che consiste nell’insegnare integralmente la legge di Dio.

4. La coesistenza della Chiesa con uno Stato comunista sarebbe possibile se tutti i proprietari rinunciassero ai loro diritti.

Nell’ipotesi di una tirannia di ispirazione comunista, disposta a tutte le violenze per imporre il regime della comunanza dei beni, e di proprietari che persistono nell’affermare i loro diritti contro lo Stato (che non li ha creati né li può validamente sopprimere), qual è la soluzione della tensione che ne deriva?

Immediatamente non si vede altro che la lotta. Non però una lotta qualsiasi, ma una lotta a morte di tutti i cattolici fedeli al principio della proprietà privata, posti in un atteggiamento di legittima difesa contro la rovina provocata da un potere tirannico la cui bestiale brutalità, di fronte a un rifiuto della Chiesa, può giungere a estremi imprevedibili. Una rivolta, una rivoluzione con tutti gli episodi atroci che le sono inerenti, l’impoverimento generale, e le inevitabili incertezze quanto alla conclusione della tragedia.

Stando così le cose, ci si potrebbe chiedere se i proprietari non siano allora obbligati in coscienza a rinunciare al loro diritto a favore del bene comune, permettendo così la instaurazione della comunanza dei beni su di una base moralmente legittima, a partire dalla quale il cattolico potrebbe accettare, senza problemi di coscienza, il regime comunista.

L’opinione è infondata. Essa confonde l’istituto della proprietà privata, in quanto tale, con il diritto di proprietà di persone concretamente esistenti in un dato momento storico. Ammessa come valida la rinuncia di queste persone al loro patrimonio, imposta in conseguenza di una brutale minaccia al bene comune, i loro diritti cesserebbero: non ne deriverebbe assolutamente l’eliminazione della proprietà privata come istituzione. Essa continuerebbe a esistere, per così dire, in radice, nello stesso ordine naturale delle cose, come immutabilmente indispensabile al bene spirituale e materiale degli uomini e delle nazioni, e come un imperativo inamovibile della legge di Dio.

E per il fatto di continuare a esistere in radice, sarebbe in ogni momento sul punto di rinascere. Ogni volta, per esempio, che un pescatore o un cacciatore si impossessasse, in mare o nell’aria, del necessario per il suo sostentamento e per accumulare qualche economia; ogni volta che un intellettuale o un lavoratore manuale producesse più dell’indispensabile per vivere giorno per giorno, e riservasse per sé il resto, si sarebbero ricostituite piccole proprietà private, generate nelle profondità dell’ordine naturale delle cose. E, come è normale, queste proprietà tenderebbero a crescere... Per evitare ancora una volta la rivoluzione anticomunista, sarebbe necessario continuare a ripetere in ogni momento le rinunce, il che evidentemente porta all’assurdo.

Bisogna aggiungere che, in numerosi casi, l’individuo non potrebbe fare tale rinuncia senza peccare contro la carità verso sé stesso. E questa rinuncia urterebbe frequentemente contro i diritti di un’altra istituzione, profondamente affine alla proprietà, e ancora più sacra di questa, cioè la famiglia. Infatti, sarebbero molti i casi in cui il membro di una famiglia non potrebbe operare tale rinuncia senza venire meno alla giustizia o alla carità verso i suoi.

* La proprietà privata e la pratica della giustizia: a questo punto, dopo avere descritto e giustificato questo continuo rinascere del diritto di proprietà, possiamo fare una considerazione che fino a ora non avrebbe potuto essere fatta con la necessaria chiarezza.

Essa riguarda la virtù della giustizia nelle sue relazioni con la proprietà privata. Al capo VI, 2, b, di questo studio, abbiamo parlato della funzione della proprietà nella conoscenza e nell’amore della virtù della giustizia. Consideriamo ora la parte della proprietà nella pratica della giustizia medesima.

Dato che in ogni momento vanno nascendo, nei paesi comunisti come altrove, dei diritti di proprietà, lo Stato collettivista, che confisca i beni dei privati, si trova, dal punto di vista della buona morale, nella condizione di un ladro. E coloro che ricevono dallo Stato beni confiscati sono, in via di principio, di fronte al proprietario spogliato, nella condizione di chi si arricchisce con beni rubati.

Qualsiasi moralista può facilmente prevedere, a partire da questa considerazione, quale enorme sequela di difficoltà deriverà alla pratica della virtù della giustizia dalla collettivizzazione dei beni. Queste difficoltà saranno tali, soprattutto in Stati polizieschi, da esigere spesso, forse in ogni momento, atti eroici da parte di ogni cattolico. Si tratta di una prova in più dell’impossibilità della coesistenza tra la Chiesa e lo Stato comunista.

5. Poiché il comunismo è tanto antinaturale, ha una esistenza necessariamente effimera. Perciò la Chiesa potrebbe accettare un modus vivendi con esso solo per qualche tempo, fino a vederne il crollo, o quanto meno l’attenuazione.

A questa obiezione potrebbero essere date varie risposte:

a) Questo carattere "effimero" è per lo meno molto relativo. Il comunismo domina in Russia da quasi mezzo secolo. Poiché solo Dio conosce il futuro, chi può dire con sicurezza quando cadrà?

b) Proprio per il fatto di attenuarsi, tale regime si prolungherebbe, poiché diverrebbe meno antinaturale. Questa attenuazione non sarebbe dunque una marcia verso la rovina, ma un fattore di stabilizzazione.

c) Vi sono regimi intrinsecamente contrari a fondamentali esigenze della natura umana, ma che pure sussistono indefinitamente. Per esempio, la barbarie di certi popoli aborigeni d’America o d’Africa, che è durata per secoli, e più ancora durerebbe, per sua intrinseca vitalità, se fattori esterni non la stessero eliminando; e ciononostante, con che sforzo si va facendo questa sostituzione di un ordine antinaturale con uno più naturale!

6. A prima vista si direbbe che certi gesti di "distensione" del compianto Papa Giovanni XXIII nei confronti della Russia sovietica sono tali da orientare lo spirito in un senso diverso dalle conclusioni di questo studio.

Se ne deve pensare esattamente il contrario. I gesti di Giovanni XXIII cui ci si riferisce si situano interamente nell’ambito delle relazioni internazionali (9).

Quanto al piano su cui ci poniamo in questo studio, lo stesso Pontefice, riaffermando nell’enciclica Mater et Magistra le condanne fulminate dai suoi predecessori contro il comunismo, ha messo bene in chiaro che non vi può essere una smobilitazione dei cattolici di fronte a questo errore, che i documenti pontifici respingono con la massima energia.

E nello stesso senso, da parte del Papa Paolo VI, gloriosamente regnante, vi è da registrare, tra altre, questa significativa dichiarazione: "Nè si creda che questa sollecitudine pastorale, di cui oggi la Chiesa si fa programma prevalente, che assorbe la sua attenzione e impegna la sua cura, significhi cambiamento di giudizio circa errori diffusi nella nostra società e già dalla Chiesa condannati, come il marxismo ateo, ad esempio: cercare d’applicare rimedi salutari e premurosi ad una malattia contagiosa e letale non significa mutare opinione su di essa, sì bene significa cercare di combatterla non solo teoricamente, ma praticamente; significa far seguire alla diagnosi una terapia; e cioè alla condanna dottrinale la carità salvatrice" (10).

Analoga posizione ha preso ripetute volte, durante l’attuale pontificato, L’Osservatore Romano, organo ufficioso del Vaticano. Per esempio, nel numero del 20 marzo 1964 della sua edizione in lingua francese, si legge: "Lasciando da parte le distinzioni più o meno fittizie, è certo che nessun cattolico, direttamente o indirettamente, può collaborare con i comunisti, poiché alla incompatibilità ideologica tra religione e materialismo (dialettico e storico) corrisponde una incompatibilità di metodi e di fini, incompatibilità pratica, cioè morale" (11).

E in altro articolo dello stesso numero: "Perché il cattolicesimo e il comunismo fossero conciliabili, sarebbe necessario che il comunismo cessasse di essere comunismo. Ora, anche nei molteplici aspetti della sua dialettica, il comunismo non transige in quanto dice riguardo ai suoi fini politici e alla sua intransigenza dottrinale. Così la concezione materialista della storia, la negazione dei diritti della persona, l’abolizione della libertà, il dispotismo di Stato, e la stessa esperienza economica assai infelice, pongono il comunismo in opposizione con la concezione spiritualista e personalista della società così come deriva dalla dottrina sociale del cattolicesimo [...]" (12).

Nello stesso senso ancora, è opportuno ricordare la lettera collettiva del venerando episcopato italiano contro il comunismo ateo, del 1° novembre 1963 (13).

Del resto, anche da fonti comuniste non sono mancate affermazioni sulla impossibilità di una tregua ideologica o di una coesistenza pacifica tra la Chiesa e il comunismo: Quelli che propongono l’idea della coesistenza pacifica, in materia ideologica, cadono di fatto in una posizione anticomunista" (Kruscev) (14). "La mia impressione è che mai, e in nessun campo [...] sarà possibile giungere a una coesistenza del comunismo con altre ideologie e pertanto con la religione" (Agiubei) (15). "Non vi è conciliazione possibile tra il cattolicesimo e il marxismo" (Palmiro Togliatti) (16). "Una coesistenza pacifica delle idee comunista e borghese costituisce un tradimento della classe operaia [...]. Non vi è mai stata coesistenza pacifica delle ideologie; non vi è mai stata né vi sarà" (L. Ilitchev, segretario del Comitato Centrale e presidente della Commissione Ideologica del PCUS) (17). "I sovietici respingono l’accusa che Mosca applichi il principio della coesistenza anche alla lotta di classe, e dicono che non la ammettono neppure sul terreno ideologico" (lettera aperta del CC del PCUS) (18).

In queste condizioni è evidente che la Chiesa militante non ha rinunciato, e non potrebbe rinunciare alla libertà essenziale per lottare contro il suo terribile avversario.

7. La coesistenza potrebbe essere accettata in regime di pia fraus, cioè se la Chiesa volesse accettare la coesistenza con qualche regime comunista, potrebbe farlo con l’arrière pensée di frodare, per quanto possibile, il patto che con esso stabilisce.

Considerata l’ipotesi di un patto esplicito, si deve rispondere che a nessuno è permesso impegnarsi a fare qualcosa di illecito. Se dunque l’accettazione delle condizioni di cui stiamo trattando è illecita, il patto che le contempli non può essere concluso.

Quanto all’ipotesi di un patto implicito, bisogna dire - per prenderne in considerazione soltanto un aspetto – che è da ingenui immaginare che le autorità comuniste, di stampo eminentemente poliziesco e servite dai potenti mezzi della tecnica moderna, non siano immediatamente informate delle violazioni sistematiche di tale patto.

Note:

(8) Cfr. GIOVANNI XXIII, Enciclica Mater et Magistra, del 15-5-1961, in AAS, vol. LIII, pp. 414-415.

(9) Dalla data di pubblicazione di questo studio a oggi, la Santa Sede ha sviluppato, in misura considerevole, i suoi rapporti con governi comunisti, da cui sono derivate firme di accordi con questi governi. Ma questi accordi non eliminano la difficoltà fondamentale costituita dalle relazioni del Vaticano o delle gerarchie ecclesiastiche locali con i governi comunisti, perché, come è ovvio, non dispensano le autorità ecclesiastiche dall’insegnamento del settimo e del decimo comandamento. È quindi inevitabile che le autorità ecclesiastiche veramente fedeli alla loro missione facciano della predicazione integrale della morale cattolica una attività ideologica anticomunista. (Nota dell’Autore alla decima edizione).

(10) PAOLO VI, Allocuzione alla XIII Settimana di Orientamento Pastorale, del 6-9-1963, in AAS, vol. LV p. 752.

(11) F. A., Le rapport Ilitchev, in L’Osservatore Romano, ed. in lingua francese, 20-3-1964.

(12) A propos de "solution de remplacement", ibidem.

(13) Cfr. Messaggio dei Vescovi d’Italia per la vocazione cattolica della Patria contro l’insidia del comunismo ateo, in La Civiltà Cattolica, vol. IV del 1963, pp. 388-391.

(14) Telegramma dell’11-3-1963 delle agenzie AFP e ANSA, in O Estado de São Paulo, 12-3-1963.

(15) Telegramma del 15-3-1963 delle agenzie ANSA, UPI e DEA, ibid., 16-3-1963.

(16) Telegramma del 23-3-1963 dell’agenzia AFP, ibid., 23-3-1963.

(17) Telegramma del 18-6-1963 delle agenzie ANSA, AFP, AP, DPA, NUI, ibid., 19-6-1963.

(18) Telegramma del 15-7-1963 delle agenzie citate nella nota precedente. ibid., 17-7-1963.

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